Recensione: Vengeful Ascension
Settimo album per la statunitense macchina da guerra chiamata Goatwhore e quinto sotto l’egida della Metal Blade; sodalizio piuttosto solido e ricco di grandi soddisfazioni per entrambe le parti anche negli anni a venire. Il quartetto, senza dire nulla di nuovo, è noto per la sua ottima miscela di black, thrash, punk e rock ‘n’ roll e per la sua fedelissima attitudine a tutto ciò; Vengeful Ascension di certo non cambia le carte in tavola e di certo non deluderà affatto i fan più accaniti, ha però alcune pecche e alcuni difetti che lo rendono solamente un disco “normale” e nulla più. L’assalto è ben confezionato, ben prodotto e anche ben venduto: l’edizione fatta a libro in doppio cd è estremamente ghiotta, ma il disco? Stanco, a nostro avviso. La band pesta, martella e si sbatte, ma ciò che dà subito segni di cedimento è il songwriting, specialmente a causa di un riffing francamente troppo basilare. Non è spesso un male, anzi, ma se nella semplicità non riesce ad uscire nulla di memorabile che vada oltre il puro empirismo, Houston abbiamo un problema. Sembra a tratti di ascoltare un combo chiuso nei propri cliché che vorrebbe uscirne ma a fatica, e il risultato è tanta professionalità. Il disco è comunque godibile, scorrevole e non mancherà di certo di mietere camionate di vittime dal palco, ma da una band di questa caratura è sicuramente lecito pretendere di più. Nei quarantuno minuti a disposizione dell’ascoltatore si susseguono riff su riff, tempi incentrati su un buon groove e una potenza che risulta fin troppo calibrata e con pochissimo spazio lasciato alla furia cieca che il genere dovrebbe richiedere. Il più evidente difetto dell’ultimo album dei Goatwhore è quindi una grande mancanza di ignoranza, qui sotterrata da un sound troppo “pensato” e professionale che, ovviamente, appiattisce il tutto in maniera pressoché irreversibile. Anche la voce di Ben, acida e abrasiva come al solito, raramente riesce a tirare fuori una linea vocale vincente e in grado di dare una marcia in più ai brani; da dimenticare le poche variazioni sul tema come, ad esempio, quelle della titletrack, francamente inconsistenti.
“We wanted it raw. We wanted it organic. We wanted it to sound the way we do in the live setting” ; nonostante le parole di Ben, non si riesce davvero ad inquadrare Vengeful Ascension come un album grezzo e live appunto a causa dei difetti sopra elencati, o meglio, l’obiettivo è forse raggiunto solo nelle intenzioni e il non lavorare più con Eric Rutan ha probabilmente inficiato più del dovuto il risultato finale. Brodino quindi; nonostante l’album ruoti attorno ad una visione di Lucifero intesa non come distruttore ma come portatore di luce e soprattutto emancipatore, Vengeful Ascension non riesce proprio a mordere e in molti momenti lascia addirittura con l’amaro in bocca, risultando alla fine della fiera un album di passaggio e dalla longevità piuttosto bassa. I Goatwhore sanno e possono fare di meglio, ci auguriamo appunto questo.