Recensione: Verisäkeet

Di Daniele Balestrieri - 10 Marzo 2005 - 0:00
Verisäkeet
Band: Moonsorrow
Etichetta:
Genere:
Anno: 2005
Nazione:
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92

Era da mesi che il vento portava l’odore dell’arrivo di questo momento, del momento più importante per i Moonsorrow, l’arrivo di Verisäkeet. Come si fa a non attendere un disco del genere in maniera spasmodica, specie dopo quel capolavoro di Kivenkantaja? Conoscendo le menti che ci sono dietro, poi, e conoscendo il tema del gruppo, e il fatto che abbiano creato delle canzoni diventate un classico istantaneo del pagan viking metal come Jumalten Kaupunki o Sankarihauta? Se la fame vien mangiando, questa fame è insaziabile, eccessiva, sanguinante, ora che da due anni tutte le armi sono al loro posto, e tutti i successi del passato hanno creato il teatro, il palcoscenico, il sipario e una consistente audience pronta a fissare le luci che avrebbero illuminato il velluto rosso su cui sono stati incisi i “Versi di Sangue”, Verisäkeet.
Trovo che Kivenkantaja sia un album eccelso, e non ho mai avuto dubbi che i Moonsorrow si sarebbero superati. Non tanto perché è semplice superare un album del genere, ma semplicemente perché stiamo parlando dei Moonsorrow, e non di una band qualsiasi. Finché ci saranno Henri, Ville e Marko, questa band sarà in grado di produrre capolavori viking a raffica, e sarei pronto a scommettere molto più su di loro che su moltissime altre band del genere. Mi aspetto un flop dai Månegarm, dai Thyrfing, dagli Ensiferum, dagli Equilibrium, non so, persino dai Finntroll. Ma credo sia impossibile che i Moonsorrow creino un disco brutto, almeno finché la line-up rimarrà quella di oggi.
L’attesa è finita quindi, e andiamo quindi a vedere cosa si cela dietro la misteriosa copertina, che raffigura una elaborata borchia macchiata di sangue.
Cinque tracce, 71 minuti. Come già annunciato, Verisäkeet si presenta come un monolite di epicità. Canzoni vertiginosamente lunghe si snodano su un tappeto di furia pagana senza compromessi, una caratteristica da sempre di spicco per la band finnica, fortemente legata alle tradizioni della propria terra, delle proprie genti e delle proprie origini.
L’intero album è un susseguirsi di tracce legate insieme da un filo conduttore naturalistico, che avvolge l’ascoltatore in spire fatte di frusciare di foglie, sibilare di vento, cinguettare di uccelli e strisciare di serpi, un richiamo ambientale che stride con la violenza dei temi trattati, specialmente nella prima parte dell’album.

Proprio all’inizio, infatti, si parte con l’innocente cinguettare di uno stormo di uccelli. Ed è stato proprio in quei pochi secondi che mi sono venuti i brividi: riuscivo già a percepire le vibrazoni del muro delle chitarre che mi avrebbe travolto come un’onda di piena, sbattendomi qua e là in un ciclone tormentato di percussioni martellanti, chitarre folgoranti e violini impazziti, tutti rigorosamente tenuti in spalla da una struttura melodica tanto rigorosa quanto eclettica.

Karhunkynsi, primo mostro di 14 minuti, si presenta in tutto il suo fragore come l’opener tra le mie preferite in assoluto della loro produzione, con una durata talmente esagerata da riuscire a dialogare con l’ascoltatore senza la fretta imposta dalle cesure tipiche di un album musicale. I Moonsorrow hanno molto da raccontare, e lo fanno senza la preoccupazione di essere troppo prolissi, come se di colpo si fosse tornati indietro alle grandi opere dei compositori classici. L’instaurazione di un’atmosfera è tra le loro priorità, e il raggiungimento di tale scopo passa attraverso imponenti strutture melodiche a ripetizione circolare, rappresentate ora da giri di violini, ora da giri di fisarmoniche e ora da giri di chitarre furiose, tra intercalari folk e intercalari black al limite del thrash, il tutto coronato dallo straziante scream del giovane Ville Sorvali il quale, senza avere particolari doti canore, riesce benissimo a incanalare quella profonda sensazione di drammaticità già dimostrata sin dalle prime battute di Metsä.

In realtà i Moonsorrow già sono forti dell’esperienza di tracce-fiume ottimamente riuscite come Jumalten Kaupunki, Kivenkantaja e Unohduksen Lapsi, quindi si sono sentiti altrettanto in grado di creare altre epopee, solamente che in quest’ultimo album si sono scordati di intervallarle con tracce più brevi. O meglio, hanno deciso di amalgamarle nel fiume musicale principale.
Ne scaturisce quindi un prodotto articolato, pieno di frammenti che – credetemi – a volte traumatizzano per il loro splendore. Proprio in questa Karhunkynsi, il breve pezzo recitato sotto lo scandire di due chitarre totalmente riverberate, gli intramezzi di munnharpe e violini, e il terrificante urlo di Ville sopra un tappeto tempestoso di percussioni ai limiti del black anni ’90 rendono tutto il brano un’attesa inconsulta per un climax che puntualmente avviene spiazzando completamente l’ascoltatore.
E un conto è sparare in serie una serie di trovate geniali, un altro è immergerle sapientemente in un fiume lungo 14 minuti, con tutto il tempo per far crescere la tensione, per costruire gli argini, per incanalare le correnti e condurre l’ascoltatore in trappola, già assuefetto dai ritmi ossessionanti della canzone.

Finita la prima, stupefacente traccia, già si è senza fiato – e il CD deve ancora cominciare. Tra il sussurro del vento e lo stridere delle aquile, gli eserciti si mettono in marcia verso Haaska – altri 14 minuti di furor bellico in cui lo stesso terreno sotto i musicisti trema all’ascolto di una battaglia atavica, combattuta negli intatti e gelidi terreni della Finlandia. La drammaticità volteggia nell’aria mentre si rispolverano i fasti dei cori epici sottratti a Kivenkantaja e posizionati a dar lustro a quella che è probabilmente la traccia più old-style presentata in quest’ultimo lavoro. Lunghi e incisivi assoli di chitarra riportano alla mente i Bathory più introspettivi di Nordland e di Blood on Ice, specie grazie a brevi parti recitate, a schitarrate classiche di ampio respiro e a cori atmosferici di trascinante impatto sonoro. Haaska non trascina come Karhunkynsi, ma accompagna l’ascoltatore attraverso i flutti fino a giungere al temporale che precede Pimeä, una traccia molto particolare che vede i Moonsorrow imbrigliare altri 14 minuti nella canzone più coerente dell’intero album, e per questo forse la più gradita da chi ascoltò l’album fin dalle prime studio session. Traccia disgraziatamente atipica, Pimeä ricorda a tratti i Satyricon, i cori dei Menhir di Ziuwari e la drammaticità delle tracce di chiusura dei Bathory di Twilight of the Gods. Chi conosce bene i Moonsorrow sa già dove quest’album andrà a parare – la curva discendente di questa traccia centrale lascia prevedere uno sfacelo di epos drammatico come avvenne in Kivenkantaja, altro album che degrada al ritmo delle tonalità altamente drammatiche della title-track e della desolante, celestiale conclusiva Matkan Lopussa.

Pimeä si concede il lusso di iniziare a chiudersi su se stessa a 6 minuti dall’inizio, ovvero a ben 8 minuti dalla fine della traccia. Quando parlo di “libertà di dialogo” non scherzo, se i Moonsorrow hanno deciso di chiudere lentamente il sipario otto minuti prima della fine di una canzone, beh nessuno glielo impedisce – la risoluzione infatti è magica. Una struttura da titoli di coda sostiene chitarre armoniose, un lavoro di percussioni preciso come non mai e tutta un’apologia di tastiere di sottofondo all’unico scopo di creare atmosfere. Niente di roboante come le vecchie tastiere di Kivenkantaja o di Tyven, no, quei Moonsorrow sono stati ingoiati in favore del protagonismo delle chitarre, che li rendono molto meno power e molto più brutalmente arcaici, come si conviene a una delle band heathen-pagan viking più pure che esistano sulla scena.
Per quanto fosse lecito aspettarselo, comunque, nulla lasciava prevedere l’arrivo della monumentale carica epica di Jotunheim, la quarta canzone che arriva a sfiorare i 20 minuti di lunghezza. Dopo la grande guerra delle prime tre, i Moonsorrow si concedono una lunghissima parentesi introspettiva di metal classico, con chitarre lente e drammatiche, timidi violini e cinguettii di una natura che prepara il suo sonno in vista del tramonto imperante. Un Ville straziante riempie l’aria di questa monolitica canzone che inizia già con i toni decadenti e romantici di una chiusura, che mostra i guerrieri stanchi seduti in cerchio, illuminati dalla fredda luce del tramonto, storditi e abbacinati dai precedenti quaranta minuti di furenti gesta belliche. Cori epici ai limiti del ridondante e ripetizioni di classica scuola finnica riempiono l’aria per l’esatto periodo che impiega il disco solare ad affogare dietro la linea dell’orizzonte: giunge la notte di Kaiku, traccia conclusiva di 8 minuti, la più breve, che inizia con il crepitare di un fuoco da campo sostenuto da un desolante accompagnamento di fisarmonica a bocca, flauto di salice e chitarra classica. Tutta la traccia è uno stanco canto corale in finlandese, impreziosito da accidentali – e volute – “stecche” melodiche e strumentali, che tanto donano quella commovente impressione di stanchezza fisica e spirituale. Canzone pericolosissima da ascoltare nel cuore della notte, in mezzo a un bosco, o in una baita solitaria – la sensazione di desolazione che assale l’ascoltatore negli ultimi 4 minuti conclusivi di crepitare di fuoco e cinguettare di uccelli notturni è eguagliata da poche altre produzioni nel mondo intero.

Settanta minuti trascorrono come un film di proporzioni epiche, una biblica opera di glorificazione dei sentimenti animisti pagani dell’antica Europa dove il cristianesimo era ancora un sogno lontano e gli dei antichi camminavano tra le montagne, l’erba e le valli dove l’uomo era sopraffatto dalla natura, e non il contrario. Meno immediato di Kivenkantaja, e per questo più criticato, Verisäkeet è il viaggio dei nostri avi,  uomini semplici e puri guidati dai propri nobili istinti e dall’ingenuo rispetto per la natura e le proprie radici; un viaggio impetuoso tra i gorghi del black metal più truce e le creste delle nubi più splendenti del folk-viking, una appassionata poesia di canzoni lunghe e complesse, e per questo di difficile assimilazione. Come molti altri prodotti scandinavi dei tempi moderni, il godimento passa attraverso un lungo periodo di acclimatazione, lontano dagli schiaffoni istantanei del black norvegese, del death svedese e del gothic finlandese di fine millennio. La nuova onda Scandinava offre un ascolto superiore, e per questo non fruibile da chiunque. Chi ha voglia di riscoprire le proprie radici in un processo di maturazione lenta e genuinamente epica faccia suo quello che non ho timore di chiamare il nuovo capolavoro dei Moonsorrow.

TRACKLIST:

1. Karhunkynsi (“Artiglio d’Orso”)
2. Haaska (“Carogna”)
3. Pimeä (“Oscuro”)
4. Jotunheim
5. Kaiku (“Eco”)

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