Recensione: Vermin

Di Alessandro Calvi - 4 Gennaio 2006 - 0:00
Vermin
Etichetta:
Genere:
Anno: 2005
Nazione:
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75

Gli Old Man’s Child sono sempre stati una creatura fatta a immagine e somiglianza del suo “deus-ex-machina” che risponde al nome di Galder. È passato qualche anno dall’ultima uscita discografica della band, pausa con ogni probabilità dovuta ai sempre maggiori impegni del musicista con i Dimmu Borgir, e non molto è cambiato. Gli Old Man’s Child son ancora una sorta “one-man-band” dato che su questo “Vermin” Galder suona tutti gli strumenti, oltre che a esibirsi dietro al microfono. Solo per la registrazione della batteria è stato chiamato un session-man, si tratta di Reno H. Kiilerich, già batterista per alcune date live dei Dimmu Borgir e già membro di gruppi come Panzerchrist, Vile ed Exmortem.

Parlando di questo disco dal punto di vista strettamente musicale, iniziamo subito col dire che la lunga militanza di Galder nella line-up dei Borgir non ha intaccato quasi per nulla lo stile degli Old Man’s Child. Chi si aspettava un album che fosse un clone, o che comunque avesse molto a che spartire con “Death Cult Armageddon”, rimarrà per fortuna enormemente deluso.
Su questo “Vermin” le tastiere pur essendo sempre ben presenti, non rivestono mai l’importanza che invece hanno nella band capitanata da Shagrath, potrei quasi dire che il loro uso è più simile a quello che si poteva udire nei primi lavori degli Emperor. Le composizioni inoltre puntano meno sulla magniloquenza, sulle composizioni orchestrali e sull’epicità e si concentrano sul lavoro delle chitarre, sviluppando un suono più cupo, tetro, per certi versi quasi più legato al death e al black grezzo delle origini che al black sinfonico di cui questo album dovrebbe essere un esponente.
È vero che gli Old Man’s Child non hanno mai realizzato un disco uguale all’altro, in ogni occasione son andati a pescare tra influenze diverse, ma son sempre rimasti fedeli a un black sinfonico dai canoni estremamente classici. Il discorso vale anche per questo “Vermin”, che per fortuna risulta non essere la solita minestra riscaldata, al contrario Galder sforna uno dei prodotti migliori della carriera della band.
Ad aprire la tracklist troviamo “Enslaved and Condemned”, sicuramente uno dei brani più convincenti del cd, una sorta di manifesto di cosa sarà questo disco. Una canzone che presenta al suo interno, forse nel modo migliore, tutti quegli elementi che in misura maggiore o minore ritroveremo anche in tutte le altre tracce. Bello l’arpeggio di chitarra iniziale che fa da preludio all’inserimento degli altri strumenti che ne riprendono il ritmo.
Che Galder sia prima di tutto un chitarrista (anche se capace di suonare un numero impressionante di strumenti) è piuttosto evidente e difatti qui e là nelle composizioni piccoli stacchi, quasi degli assoli di chitarra degni di un disco thrash, sono spesso rintracciabili. Cosa che tra l’altro personalmente non mi è dispiaciuta per nulla, anzi, trovo che siano uno dei punti di forza di questo disco che riesce così ad essere vario e non esageratamente monolitico.
L’unico afflato epico, il cd se lo concede con l’intro della quinta “Lord of Command (Bringer of Hate)”, brano che inizia con un passaggio di sapore quasi marziale, ma che ben presto lascia spazio a chitarre, basso e batteria, estromettendo quasi completamente le tastiere.

Per quanto riguarda la produzione c’è poco da eccepire, sempre potente e tagliente, oppure volutamente sporca là dove ce n’era più bisogno. Forse avrebbe meritato un po’ più attenzione il suono della batteria, a me suonato in alcuni passaggi fin troppo finto, ma probabilmente si tratta di una scelta voluta. L’album in generale non è però esente da qualche critica. L’aver avocato a se tutti gli strumenti da parte di Galder, ha a mio avviso generato una omogeneità di suono per certi versi quasi negativa. Si sente che gli strumenti son fin troppo uguali, ogni musicista suona alla sua maniera e questo spesso fa la fortuna di un disco in cui ognuno mette del suo nel creare il sound della band. Qui invece suonando una sola persona tutti gli strumenti, si perdono quelle sottili differenze che avrebbero potuto rendere questo cd più variegato e sicuramente migliore.

Per concludere Galder si riconferma una delle menti più prolifiche e valide del panorama black di questi anni, il nuovo album dei suoi Old Man’s Child ce lo ripresenta in grande forma, autore di un gran bell’album meritevole di trovare posto nella collezione di ogni amante del black sinfonico di buona fattura.

Tracklist:
01 Enslaved and Condemned
02 The Plague of Sorrow
03 War of Fidelity
04 In Torment’s Orbit
05 Lord of Command (Bringer of Hate)
06 The Flames of Deceit
07 Black Marvels of  Death
08 Twilight Damnation
09 … as Evil Descends

Alex “Engash-Krul” Calvi

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