Recensione: Versions of the Truth
Non capita spesso di sviluppare una tale connessione con una band o con un artista appena scoperto da spingere l’ascoltatore a immergersi rapidamente e in profondità nella sua discografia. Per il sottoscritto, ciò è avvenuto con Versions of The Truth dei The Pineapple Thief, album che mi ha letteralmente e inesorabilmente agganciato a questa progressive rock/indie rock band britannica. Fondata nel 1999 da Bruce Soord (voce e chitarra) la band ha pubblicato 13 album in studio guadagnando crescente popolarità, ma è solo con l’ingresso dietro alle pelli di un tal Gavin Harrison (Porcupine Tree, King Crimson) nel 2017 che ha iniziato ad attirare su di se l’attenzione di una certa nicchia di pubblico, stampa e critica. L’acclamato Dissolution del 2018 ha consacrato la nuova formazione e per certi aspetti ha segnato un nuovo punzo zero.
Eccoci ad oggi, o meglio al 2020. Versions of The Truth, autoprodotto in pieno lockdown, colpisce per le sue vibrazioni leggermente inquietanti e malinconiche, producendo sfumature di tristezza, amarezza e lotta per l’auto-riconoscimento. Gran parte del mondo si sta sentendo schiacciato dalla paura, dalla disinformazione e dalla minaccia della violenza, e il contenuto dei testi dell’album scava proprio in tutto questo, esplorando i danni che ne derivano quando le relazioni si sgretolano, le prospettive mutano e la verità è oscurata. Anche la copertina è enigmatica, utilizzando un’incisione del defunto artista tedesco Michael Schoenholtz, una serie astratta di forme che suscitano un senso di confusione, alludendo ad un labirinto che non può essere risolto, e lascia lo spettatore aperto a diverse interpretazioni, dando ad ogni persona l’opportunità di vedere appunto la propria versione della verità. Questa è la deprimente realtà che si riflette nelle 10 canzoni dell’album. Non vediamo le cose allo stesso modo e la lotta per trovare un terreno comune è ardua e dolorosa.
La title track apre il disco ritraendo una discussione tra due individui con prospettive diverse. Il testo “That’s Not How I Remember It” sposta la prospettiva e l’attenzione da una persona all’altra. Una semplice chitarra munita di tremolo, synth spaziali e un’insolita linea di marimba/xilofono nella sezione introduttiva contribuiscono all’innegabile atmosfera spettrale fornendo le basi per un crescendo di intensità attraverso un ritornello martellante e ossessivo. Passando dallo splendido breakdown dove la voce di Soord è sorretta da un elegante trio pianoforte-basso-batteria fino all’esplosione di chitarre nella sezione centrale possiamo cogliere il meglio delle influenze di gruppi come Porcupine Tree, Anathema e Katatonia. Sulla successiva “Break It All” spicca la performance di Harrison che richiama l’attenzione su di sé, proponendo i suoi tipici pattern inaspettati che conferiscono a questa semplice traccia alcune sfumature interessanti. Il ritornello è un po’ ripetitivo e armonicamente spigoloso in alcuni punti, forse per evitare che ci si senta troppo a proprio agio. Ancora l’eco di Viva Emptines dei Katatonia nella ossessiva ripetitività delle linee melodiche della voce e rimembranze di The Incident dei Porcupine Tree nella cupa sezione strumentale. Tolta l’esperienza sonica sicuramente di alto livello, la traccia nel suo complesso passa in secondo piano rispetto all’opener.
Fortunatamente i nostri si riprendono immediatemente con “Demons” splendida canzone che mostra un appeal più pop con un gusto stranamente anni 90. Le chitarre acustiche regnano indiscusse e da sole potrebbero sostenere l’intero brano mentre lo splendido lavoro di Harrison e Jon Sykes al basso contribuiscono a impreziosire una traccia nata perfetta. Ottimi gli intrecci vocali in piena sincronia con le semplici linee di chitarra. “Driving Like Maniacs” è uno dei momenti migliori dell’album. Il mood ricorda le atmosfere del precedente Your Wilderness (2016) e pare la colonna sonora per un viaggio solitario. È una traccia fragile, esempio perfetto dell’atmosfera tetra e al contempo positiva che questa band riesce a creare. Eseguita magistralmente, con tutti gli strumenti al proprio posto al puro servizio della canzone, nessun ego coinvolto. La voce di Soord è delicata, la sua chitarra è contemplativa e la scrittura della canzone vira verso un paesaggio progressivamente più cupo. Uno splendido pianoforte nel ritornello sferra il colpo di grazia, dritto al cuore.
“Leave Me Be” riprende i toni del già citato Dissolution e presenta un ritornello orecchiabile che sicuramente renderà ancora meglio dal vivo. Interessante la sezione strumentale fluttuante a metà brano. Ancora una volta, Harrison utilizza tom e rullante con ingegno per conferire a questa semplice canzone un senso di profondità. “Too Many Voices” è un altro brano cupo e tetro che presenta un utilizzo massiccio di tastiere. Nonostante scorra piacevolmente nel sottofondo, a livello di composizione si ha tuttavia la sensazione che la traccia non vada da nessuna parte.
Se analizziamo l’album fino a questo punto, la sensazione è quella di una costante attesa che la band si scateni. Attesa mancata in quanto sembra che i nostri abbiano deciso di non uscire mai dalla carreggiata, scelta interessante che sicuramente permette di avere più tempo e spazio per godersi il paesaggio, ma che sotto sotto fa desiderare quel poco di brivido in più. “Our Mire” si avvicina al picco desiderato premendo nettamente sull’acceleratore per poi frenare nuovamente. L’umore grigio è spezzato da questa traccia (la più lunga e sicuramente una delle più interessanti del disco) che presenta splendidi passaggi da strofe contenute a ritornelli trascinanti e che contiene una varietà dinamica emozionante. “Out of Line” regala una nuova riflessione introspettiva con il suo tempo più lento e cadenzato. Il testo si sofferma sulle opportunità mancate e sulle cose lasciate in sospeso ed evoca un senso di rimpianto e di presagio, enfatizzato nel momento in cui una singola nota di pianoforte funge da unico accompagnamento a una performance vocale convincente. Traccia da fuoriclasse. “Stop Making Sense” inizia come un nudo lamento, tipico di Bruce Soord, che si lascia coinvolgere dalle vibrazioni della marimba e fluttua come un fantasma in cerca di qualcuno da perseguitare. Traccia sicuramente interessante con un bell’intermezzo strumentale, ma non necessariamente un punto forte del disco. A chiudere questa collezione malinconica è “The Game”, che contiene elementi di sospensione e mistero, quasi come i titoli di coda di un film che si è concluso con tutti i personaggi più piacevoli che sono stati uccisi lasciando solo un totale senso di perdita e il punto domanda su cosa succederà dopo. Il brano è monocorde e l’angoscia generata è quasi tangibile. Impressionante il crescendo ad opera di un uso massiccio di tastiere da parte dell’ottimo Steve Kitch
I The Pineapple Thief sono un gruppo da scoprire e decodificare. Nonostante siano tutti musicisti delicati e perfetti è innegabile che Gavin Harrison abbia avuto un grande impatto sul suono (e sul successo) degli ultimi due dischi. La sua presenza aggiunge davvero qualcosa di speciale alla band, sia dal vivo che in studio e il suo contributo su quest’album ne è un valido esempio, anche se paradossalmente sembra aver fatto un passo più in secondo piano, forse tentando di suonare più in funzione della canzone. Come risultato, pur essendo il suo carattere innegabilmente presente, è messo meno in mostra. Secondo il comunicato stampa, la band stava intenzionalmente cercando di non fare una nuova versione dei dischi già pubblicati, e sono certamente riusciti a non essere ridondanti rispetto alle due uscite precedenti. Hanno preso un approccio più diretto su questo disco e mentre da un lato può essere visto come più focalizzato, dall’altro è anche meno vario. Versions of The Truth è quindi il miglior disco di The Pineapple Thief? O un passo indietro? Probabilmente tutto dipende da chi pone la domanda. Ogni ascoltatore ha la propria “versione della verità“.