Recensione: Verso casa
Il lascito di John Ronald Reuel Tolkien non si limita ad averci consegnato capolavori di epica moderna come Lo Hobbit o Il Signore Degli Anelli ma è stato più profondo attraverso l’influenza di diversi settori, tra cui quello della musica, come ampiamente documentato nel libro di Stefano Giorgianni, J.R.R. Tolkien il signore del metallo: dai Led Zeppelin ai Blind Guardian, passando per Summoning, Cirith Unghol, Gorgorth, e tanti altri ancora. Il suo influsso è arrivato fino ad Eboli, dove F. ha dato vita, nel 2015, al progetto Taur-im-Duinath, che prende il nome dalla foresta oscura e tetra tra i fiumi Sirion e Gelion della Terra di Mezzo, in cui nessuno, ad eccezione di pochi Elfi Oscuri, si aggirava.
Verso Casa è il terzo full-length e, in questo nuovo capitolo, l’autore si interroga sul significato di appartenenza e identità nell’assenza di un radicato senso del luogo, tematiche, appunto care a Tolkien ed approfondite in modo diverso con personaggi come Bilbo Baggins (che lascia la sua casa in cerca di avventure) o Thorin Scudodiquercia (che invece intraprende un’epopea proprio per riprendere quella casa che era stata sottratta ai suoi antenati dal drago Smaug). La risposta a queste domande introspettive non va cercata in un luogo che trascende la dimensione fisica della parola stessa, ma in un ideale che vede realizzato il senso di pace, in cui i desideri e conflitti sono privi di significato. Ciò che può scaturire, quindi, è un messaggio prettamente evocativo di sensazioni quali nostalgia e malinconia, in cui il suo black metal trova terreno fertile.
Verso Casa si compone di sette brani, per un totale di quasi 45 minuti di musica. L’artwork è una classica rappresentazione del genere, con un panorama montuoso in bianco e nero, carico di oscuro pathos, che rappresenta al meglio la proposta musicale di Taur-im-Duinath: un black metal che vira con forza verso atmosfere cupe e pregne di malinconia, dalle forti sfumature emotive, che determinano tanto nell’economia del disco.
Apre Vento Errante, una composizione dal forte impatto emotivo, nostalgica, tanto nella struttura quanto nell’essenza: anche quando alza i giri, resta comunque quella sensazione di smarrimento che attanaglia l’anima. Si prosegue con Madre Notte: l’oscurità si libera e assume il fraseggio di una chitarra o il suo roboante blast beat e, indipendentemente da ciò, la Poesia Nera pervade lo spartito di questa creatura di F. Più aspre, invece, Ritorno e Impermanenza: le spine che avvolgono ed entrano nella carne, soavi come una dolce eutanasia, come l’attimo che precede la fine dopo una lunga sofferenza. Il soffio del gelido vento, apre L’Ultima Neve: le corde della chitarra accarezzano le orecchie come se fossero candidi fiocchi, che presto diventano una tempesta che tutto divora e avvolge, e rende indivisibili cielo e terra. L’impatto dell’acustica di Maree è quello di un’onda che ti culla e trasporta lontano, verso un quieto orizzonte notturno, illuminato dalle sole stelle, pronto a trasformarsi in tempesta.
La grande capacità di Taur-im-Duinath è quella di unire al black metal, elementi post-rock, folk e ambient in grado di arrivare in fondo al cuore, di squarciarlo e di tirare fuori tutto il nero che vi è nascosto: un’esplosione di liberatoria oscurità, che prende forma nei paesaggi che ha immaginato e dipinto su pentagramma, con note che sono talvolta affilate come coltelli o dolci come il soffio del vento. La sua ruvidità si trasforma in tetra e malinconica bellezza, semplice, diretta e immediata.
Con questo lavoro, il progetto Taur-im-Duinath fa un notevole passo in avanti.