Recensione: Victims Of The Modern Age
Dopo aver portato avanti il progetto Ayreon ed averne avviati altri, quali Stream Of Passion e Guilt Machine, il cinquantenne polistrumentista olandese Arjen Anthony Lucassen rispolvera la sua creatura denominata Star One. Dopo l’acclamato Space Metal del 2002 e l’album dal vivo Live On Earth dell’anno seguente, si pensava che il monicker fosse ormai finito in uno scatolone nella cantina di Arjen, riposto su di uno scaffale troppo in alto per ricordarsene.
Il genere proposto con il debutto degli Star One, catalogato per l’appunto come “space metal”, era mutuato da un sottogenere che aveva trovato spazio tra gli anni ’60 e ’70, e non sembrava fuori luogo per quanto proposto in quel lavoro. Va detto che qui siamo in presenza di altro, nonostante i protagonisti siano gli stessi di otto anni fa. Se è pur vero, infatti, che è ancora presente un gran lavoro al synth da parte di Lucassen – com’è lecito e forse anche scontato aspettarsi – Victims Of The Modern Age è molto più cupo, decisamente più heavy e anche meno diretto. Niente che richieda decine e decine di ascolti per essere compreso e ricordato, sia chiaro, ma allo stesso tempo niente che resti in testa dopo un primo ascolto. C’è da dire che gli appassionati della musica dell’olandese sanno già a cosa vanno incontro quando prendono contatto con una sua nuova opera: sanno che per un po’ di tempo escluderanno gran parte degli altri ascolti e si dedicheranno totalmente ad essa. Per tutti gli altri è indubbio che il platter in questione rappresenti qualcosa di meno ostico nell’approccio rispetto a quelli targati Ayreon.
Dopo l’intro psichedelico di Down The Rabbit Hole, si comincia a far sul serio con Digital Rain. Sostenuta da una sezione ritmica martellante nell’incipit e nel chorus, con Ed Warby (Gorefest) che picchia senza lesinare energie, e da un riffing cupo e pesante di Lucassen, la traccia mette in evidenza un Allen in forma smagliante. Il singer dei Symphony X si distinguerà dall’inizio alla fine per una prova maiuscola, come d’altronde è ormai quasi scontato aspettarsi da lui. I soli di chitarra e tastiera sono affidati, in tutto l’album, rispettivamente a Gary Wehrkamp (Shadow Gallery) e a Joost van den Broek, già nei disciolti After Forever nei quali alla voce c’era Floor Jansen, anche lei qui ottima protagonista. Il main riff di Earth That Was è ancora più pesante; bello, anche se troppo breve, il break “space”. Dietro il microfono, oltre alla Jansen e ad Allen, offrono una grande prova anche Damian Wilson (Threshold) e Dan Swanö (Nightingale), con quest’ultimo che comincia a dare un breve assaggio del suo growl a partire dalla title track, brano a dir la verità un po’ piatto nella sua ossessività, e che sembra sempre sul punto di decollare ma non lo fa mai. Le cose vanno decisamente meglio in Human See, Human Do, pezzo dal piglio speed, orecchiabile quanto basta e ottimo per mettere in evidenza il cantato ma anche una prova più che buona di Peter Vink al basso. 24 Hours svolge bene il compito di mettere in risalto, una volta di più, le doti tecnico-espressive dei vocalist, ed in ogni caso è uno degli episodi più riusciti dell’intero platter, grazie alla sua alternanza di strofe malinconiche e ritornelli sostenuti e quasi disperati, con in più l’aggiunta di una corposa parte strumentale. Cassandra Complex è un lento trascinarsi per cinque minuti; se, nelle intenzioni del songwriter, avrebbe dovuto aggiungere un qualche valore al disco, si può dire che qualcosa sia andato storto. Non che la successiva It’s Alive, She’s Alive, We’re Alive faccia gridare al miracolo, ma se non altro si salva per un bel solo di tastiera. Chiude It All Ends Here, brano più lungo nella tracklist (vicino ai dieci minuti); la ricetta è più o meno sempre la stessa: riffing cupo e abbondantemente distorto, atmosfere oscure, synth in abbondanza e grande teatralità dei quattro cantanti. Desta perplessità l’eccessiva lunghezza del brano, che sarebbe stato più facile da digerire se fosse durato qualche minuto in meno.
L’esercito dei fan di Lucassen andrà con ogni probabilità in visibilio per questo Victims Of The Modern Age. Quasi tutti gli altri, tra quelli che vorranno ascoltarlo, con ogni probabilità batteranno il piedino, meneranno un po’ la testa e lo dimenticheranno piuttosto in fretta.
Il disco è ben suonato (e ci mancherebbe…), cantato dai quattro dietro al microfono (Sir Russell Allen su tutti) in modo eccellente e prodotto con cura maniacale. Purtroppo ha dei limiti che gli impediscono di essere considerato un ottimo lavoro: primo su tutti il fatto che, pur essendo più diretto rispetto allo standard dei lavori di Arjen, non fila particolarmente. A questo va ad aggiungersi una perdurante sensazione di scarsa freschezza di più o meno tutti i brani. Inoltre certi accompagnamenti “acidi” di tastiera sopra riff belli pesanti spesso ci stanno, per usare una frase fatta, come i cavoli a merenda. D’accordo lo “space metal”, ma questo è un lavoro assolutamente diverso rispetto a quello del 2002, e la cosa non può passare in secondo piano. A conti fatti, dunque, Victims Of The Modern Age è consigliato ai maniaci delle composizioni del musicista olandese; gli altri possono tranquillamente farne a meno.
Discutine sul topic relativo
Tracklist:
1. Down The Rabbit Hole (1:20)
2. Digital Rain (6:23)
3. Earth That Was (6:08)
4. Victim Of The Modern Age (6:27)
5. Human See, Human Do (5:14)
6. 24 Hours (7:20)
7. Cassandra Complex (5:24)
8. It’s Alive, She’s Alive, We’re Alive (5:07)
9. It All Ends Here (9:46)
Line-up:
Vocalists
Russell Allen
Damian Wilson
Dan Swanö
Floor Jansen
Instrumentalists
Arjen Anthony Lucassen: guitars, hammond, mellotron, minimoog, solina strings
Ed Warby: drums
Peter Vink: bass
Joost van den Broek: keyboard solos
Gary Wehrkamp: guitar solos
Special guest vocalists*
Tony Martin
Mike Andersson
Rodney Blaze
*nel bonus cd della special edition, contenente 4 brani inediti, una cover di Knife Edge di Emerson, Lake & Palmer e un video che documenta il making of di Victims Of The Modern Age