Recensione: VII: Sturm Und Drang
Dunque, a scanso di equivoci precisiamo immediatamente che il settimo disco dei Lamb Of God è frutto di un paio di questioni spinose, e anche un paio di incazzature. La prima, come già sapete, nasce nel 2012, nel momento in cui Randy Blithe viene accusato di un omicidio causato dalla spinta di un ragazzo giù dal palco durante un concerto. Non è qui il caso di speculare o intavolare discorsi sull’accaduto; limitiamoci a una piccola infarinatura di cronaca e al concludere con l’assoluzione al cantante della band arrivata nel 2013.
La seconda incazzatura è quella di Chris Adler: provate voi a rimanere sereni e lucidi dopo aver ricevuto una telefonata e aver saputo di essere stati scelti per suonare Super Concimer…ehm.. Collider. Detto ciò, questi due soggetti rendono Sturm Und Drang un’opera di una potenza inaudita e permeata di una sana rabbia che mai male non fa.
L’inizio è col botto e i primi cinque pezzi sono di altissimo livello. Sono presenti tutte le caratteristiche della band: dal growl di Randy ai riff serrati di Mark e Willie fino ad arrivare a una sezione ritmica chirurgica, varia e che si rivela una vera e propria macchina da guerra.
Still Echoes scalda a dovere gli animi essendo brutale al punto giusto ma anche catchy: il ritornello entra subito in testa assieme al riff portante e siamo certi che dal vivo farà sfracelli. Erase This accelera il tutto con svariati momenti thrash/death alternati ai classici riff groove che la band da sempre offre; la prestazione corale del gruppo è notevole e sfoggia un altro ritornello memorabile. Un piccolo appunto al riff suonato sul 2/4, con quelle quattro note alte davvero fastidiose e poco ispirate; molto buoni il ponte invece e i conseguenti assoli in cui ci si concede anche l’uso del talk box. 512 è senza dubbio uno dei pezzi migliori dell’album (oltre ad esserne il primo singolo) ed entra di diritto nella top ten assoluta dei Lamb Of God. E’ una canzone praticamente perfetta e arrangiata in maniera sopraffina, in cui tutto funziona e fa anche scuola a livello visivo (molto bello anche il video). I riff trasportano al melodic death svedese e il ritornello è da cantare e urlare a squarciagola fino allo sfinimento. Chapeau. Embers continua a mantenere il livello dell’album molto alto, una sorpresa se si pensa all’ultimo poco riuscito Resolution; lo fa coi tratti classici della band, quindi mazzate su mazzate di doppia cassa e groove con un ritornello ben riuscito e facilmente assimilabile. Il brano offre anche un lato nuovo dei Lamb Of God in cui si concedono una sperimentazione in questo caso riuscitissima: alla voce di Randy si unisce quella onirica di Chino Moreno dei Deftones e il tutto raggiunge livelli spettacolari. Footprints è tiratissima e praticamente inevitabile dopo un piccolo momento di “riflessione”; le vere sorprese arrivano con la seguente Overlord.
Che dire? Precisiamo prima una cosa: le sperimentazioni sono sempre gradite, quasi obbligatorie di questi tempi. C’è un però, ed è quello della qualità: nel momento in cui sono apprezzabilissimi gli intenti, quando una cosa è davvero uscita male non c’è santo che tenga. Overlord è un caso di questi: non si salva nulla in questi minuti, dalla voce in clean moscia e facente verso a Layne Staley (già nominarlo come paragone fa rabbrividire, scusaci Layne) agli arpeggi mielosi di finto southern credibili come Abbath prete di parrocchia, per non parlare del ritornello davvero improponibile. Non è finita qua: per qualche oscuro motivo la canzone deve avere anche una inutile parte pesante, che arriva in seguito ad uno stacco che nemmeno il Super Attack riuscirebbe ad incollare, figuriamoci una proposizione del genere. Embers trattasi quindi di sperimentazione fatta bene e di fattura altissima; Overlord improponibile anche come bonus track, di buono ha solo l’intenzione.
Passato lo stordimento per il controverso spartiacque, Anthropoid ritorna ai range più consoni alla band e lo fa in maniera si brutale ma tra l’anonimo e il sufficiente; va detto che il disco fino alla fine non raggiungerà quasi più i picchi di eccellenza della prima parte e risulterà molto più incerto. Poco qui rimane da ricordare, passiamo a piè pari a Engage The Fear Machine, che si rivela subito un buon pezzo con un riff portante decisamente insolito e riuscito. Il difetto dei Lamb Of God, che si portano dietro da sempre, è l’essere prevedibili: si sa quasi sempre dove andranno a parare e quasi sempre che tempi di batteria ci saranno nonostante a suonarla sia un mostro come Adler. Osare un po’ di più a livello ritmico non farebbe male, magari anche sforando nel death metal come alcuni sporadici momenti dell’album. Buonissimo il finale che, anche se fosse stato di qualche battuta più lungo, non avrebbe di certo stufato. Delusion Pandemic passa totalmente inosservata e la monotonia inizia a fare capolino assieme a un senso di già sentito cinquanta milioni di volte dalla band stessa; la sensazione viene fortunatamente spezzata da un ponte potentissimo e veramente riuscito. Chiude la tracklist ufficiale Torches, nella quale fa capolino il secondo ospite dell’album: Greg Puciato dei Dillinger Escape Plan. Il brano alterna strofe oniriche con voce effettata al potente growl di Randy; si rivela una degna conclusione anche se non epocale. Molto buono il crescendo e la conseguente esplosione, qui sensata e ragionata bene al contrario di Overlord.
Le due bonus tracks, presenti nell’edizione digipack del disco non sono malaccio, ma a questo punto dell’ascolto risultano prescindibili e skippabili non essendo in grado di dire davvero nulla di ciò che non sia già stato detto.
Concludendo, Sturm Und Drang è un disco strano e ci consegna una band in forma smagliante. Strano perché per quanto sia pazzesca la prima parte ve n’è una seconda sufficiente o poco più e un’inaudita ciofeca a fare da spartiacque. I Lamb Of God sono una band tutt’altro che morta, anzi, sono ancora in grado di caricare cartucce memorabili per spararle in faccia all’ascoltatore e imprimerle nei suoi ricordi come solo i grandi sanno fare. Rispetto al precedente lavoro un passo avanti è stato fatto ma non basta; ci sono molte ombre in questo disco e momenti poco lucidi uniti a qualche sano riempitivo. I capolavori risiedono altrove, anche nella discografia della band stessa; rimaniamo comunque fiduciosi perché la strada intrapresa è quella giusta.