Recensione: Violent Death Rituals
Trentasei anni di onorata carriera alle spalle, il titolo fiammeggiante di prima death/thrash metal band olandese, nel 1984 erano già proni a spaccare strumenti in sala prove da qualche parte in una sala prove, un garage, una bettola di Rotterdam. Nel ’92 per la verità la band muore, ma sette anni dopo il leaderissimo Stephan Gebédi la riesuma (a dispetto del monicker) e da allora sono arrivati cinque nuovi album, compreso quest’ultimo “Violent Death Rituals“. Naturalmente la formazione è 2.0, c’è Paul Baayens dagli Asphyx (ed Hail Of Bullets), Martin Oms (varie band minori nel curriculum, nonché turnista live per i Melechesh) e Mous Mirer (stesse band di Oms e bassista ufficiale dei Melechesh tra il 2010 ed il 2012). Se all’inizio nomi quali Possessed, Slayer, Sodom e Kreator affollavano il gotha dei beniamini borchiati dei Thanatos, oggi tali influenze – sempre e comunque presenti, in mente, corpo e spirito – devono necessariamente far posto alle imprese titaniche nel frattempo compiute da Martin Van Drunen, figura di spicco del metal estremo olandese, il signor Pestilence, Asphyx, Hail Of Bullets, Grand Supreme Blood Court. Impossibile per Gebédi e soci sottrarsi al magistero di Van Drunen ed al lascito delle sue imprese discografiche; quasi tutto il metal olandese dal thrash in giù, verso l’inferno, ne è rimasto segnato. Drunen sta al metal olandese come Manzoni e Dante alla lingua italiana. Detto ciò, e dunque premesso che lungo i 41 minuti di “Violent Death Rituals” Asphyx e similia li sentirete aleggiare continuamente, in ogni recesso buio e malmostoso della scaletta, i Thanatos spingono l’acceleratore per metterci del proprio in questa tumultuosa cavalcata mixata da Dan Swano. Il marchio della band si attesta sul classico intreccio di death e thrash metal, beneficiando di una produzione particolarmente pulita e potente e dando risalto ad ogni strumento in un amalgama finale che mette tutta l’artiglieria al medesimo livello senza cannibalismo reciproci.
Non ci sono modernismi di sorta del songwriting della band, al passo coi tempi, produzione attuale, cattiveria ed efferatezza mai sopite, ma non per questo i Thanatos si avventurano in territori che non appartengono loro. Non c’è -core, non ci sono -ismi improbabili a invelenire il sound dei nostri, solo classico death metal alla vecchia maniera, fatto come si deve e sempiterno. C’è tecnica a sufficienza da non risultare un lavoro di contadini zappatori del metal estremo, ma allo stesso tempo nulla che vada in direzione delle raffinatezze esecutive dei Pestilence post “Consuming Impulse“, per dire. I Thanatos sono rimasti al di qua dello steccato segnato dal 1989. Mitragliate sempre efficaci, forse per qualcuno troppo prevedibili, io mi sono sentito a casa ma è indubbio che una critica che si può muovere al platter e quella di risultare tutto sommato sì compatto e fiero, ma anche un filo monolitico (no, non ho detto monotono). Scava scava, in realtà non è tutto poi così prevedibile, “As The Cannon Fade” ad esempio mostra cromatismi differenti e vari (melodici e persino epici) e, pur sbatacchiati tra attacchi all’arma bianca e riff killer, qua e là è possibile scovare qualche minimo momento di apertura e decompressione sul campo di battaglia olandese. I Thanatos propongono una formula rodata, ci sono da oltre un trentennio, non hanno grilli per la testa e non vogliono rivoluzionare alcunché, solo far male, figurativamente si intende, ovvero dare un bella scarica di adrenalina all’ascoltatore e consentirgli di trascorrere del tempo sentendosi vivo e belligerante, alive and kicking. Eccoli qua, niente di più e niente di meno, come le ricette della nonna, sempre quelle, semplici, genuine, sane; ci si ritorna sempre volentieri dopo aver astruserie molecolari e avanguardismi da nouvelle cuisine.
Marco Tripodi