Recensione: Virginia Wolf

Di Eric Nicodemo - 22 Marzo 2013 - 19:31
Virginia Wolf
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Anno: 1986
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85

La naturale evoluzione dell’hard rock anni ’70 in termini di impatto sonoro, espressivo e tematico è rappresentata senza ombra di dubbio dall’heavy metal, sebbene ci sia più di qualcuno (in errore) che vede slegate le due “correnti”, senza capire il nesso che unisce le mille sfaccettature del rock duro.

Talvolta, tale collegamento si può trovare nelle influenze, altre volte viene addirittura ribadito con la presenza di hard rockers in complessi trasversali, come quelli AOR (non sempre facilmente ascrivibili in un genere definito), senza contare che nelle grandi manifestazioni musicali (in primis il Monsters Of Rock) partecipano sia rock che heavy bands.

Esempio eclatante è il caso di Jason Bonham, figlio del celeberrimo John Bonham dei Led Zeppelin, che intraprese la carriera musicale con i gloriosi Airrace, band di heavy melodico, per poi partecipare, come nome di punta, al progetto Virginia Wolf.

Al di là della volontà di creare un certo hype attorno a un cognome tanto illustre, per attirare la massa e richiamare l’attenzione dei media, i Virginia Wolf furono un astro che brillò di luce propria nel periodo in cui il baricentro del rock si era spostato dall’Inghilterra all’America, grazie a nomi importanti quali Bon Jovi, Guns’N’Roses e Metallica, tanto per citarne alcuni.

Infatti, non è un mistero che a partire dalla seconda metà degli anni ’80 il panorama del rock UK  annaspava, affossato in termini di proposta, scarsa in qualità e quantità.

Durante questo “declino”, i Virginia incisero l’album omonimo nel 1986, eccellente esempio di pomp rock britannico, la risposta diretta al rock radiofonico di Journey e soci che tanto spopolava nella stazioni americane: infatti, lo stile del chitarrista Nick Bold è influenzato da Free, Foreigner e Bad Company. Tale proposta musicale provoca inizialmente il rifiuto dell’Atlantic, situazione paradossale visto che i Virginia vennero scritturati in seguito per lo stesso motivo presso la stessa major!

La produzione porta la firma di Roger Taylor (batterista dei Queen) che assemblò il disco con l’aiuto di David Richards presso i Musicland Studios di Monaco (immortalati nel video di One Vision dei Queen).

Virginia Wolf è un lavoro forte di un airplay adrenalinico (Are We Playing With Fire?), caratterizzato da incursioni nel mondo del pop rock (Make It Tonight e Waiting For Love).

L’opener è specchio fedele di un AOR virile, con le bacchette “magiche” di Bonham in rilievo che conferiscono alla sessione ritmica compattezza ed espressività. Alle tastiere è affidato il compito di introdurre la canzone mentre la chitarra, “ruvida”, prende il sopravvento nel riff portante, inframmezzato da pause, dove la voce, spinta dai backing vocals, scivola suadente sulle note. Il timbro enfatico di Chris Ousey incendia alla domanda (retorica) “Are We Playing With Fire?”

Make It Tonight si affida ancora una volta al groove di Bonham, che riesce a creare un ritmo espressivo e “disinvolto” con l’ausilio di basso e tastiera, dove la chitarra non sovrasta ma è sempre presente lungo tutta la composizione.

Le iniezioni grezze della sei corde in Only Love vengono “ingentilite” da un delicato arpeggio; il frontman dilata l’atmosfera intimista con voce alta ma non acuta che mantiene una tonalità calda e trasognata. La batteria si fa decisa e, all’unisono, si proclama il motivo delle proprie azioni: “Only Love- Solo (per) amore!”. Le note della chitarra diventano alte e acute per sancire la tensione affettiva e il tutto si chiude con linee vocali che sfumano sempre più nei solchi di lievi tastiere.  

It’s In Your Eyes ha un arpeggio che, come i rintocchi di un orologio, scandisce i vocals armoniosi, che ripetono il titolo con altezza decrescente, per conferire un taglio sentimentale e sognante.

Pensare a Waiting For Love come alla solita ballad potrebbe trarre in inganno: i ritmi lenti o sofferti sono aboliti, regna un senso di impellente vitalità nei suoi backing vocals e nel suo caratteristico pulsare di batteria e basso; Waiting For Love è una canzone fatta per piacere come lo dimostra il pur discutibile videoclip promozionale (al tempo in rotazione su MTV America) ma, al di là dell’atmosfera “pop’n’soul” che si respira, rimane un episodio godibile e trascinante.

Per fortuna, i Virginia Wolf non sono un complesso che predilige esclusivamente il target commerciale e il trittico Livin’ On The Knife Edge/ For All We Know/ Take A Chance è qui a dimostrarlo.

Nella prima canzone del trittico la tastiera contribuisce a creare la giusta coreografia dove la chitarra possa incedere e la timbrica del cantato passionale possa esprimersi al meglio; brevi keyboards e Livin’ On The Knife Edge prorompe nel ritornello che fa di chitarra e voce un unica dimensione corale.

For All We Know rincara l’adrenalina sprigionata da Livin’ On The Knife Edge: le distorsioni della chitarra, sostenute dal drumming, mutano in arpeggio; poco dopo si inserisce la parte vocale e la batteria aumenta in velocità per alcuni secondi, giusto il tempo di introdurre il reprise dei vibrati mentre il cantato indugia su tonalità sospese, che si accentuano negli acuti immediatamente successivi; in chiusura l’alternanza funky di tastiere e chorus, riecheggiato dalla voce insistita del frontman.

La marcia che nasce dal perfetto connubio tra sessione ritmica e keyboards fa da sfondo a Don’t Run Away, dove la voce dipinge atmosfere calde e sofferte, prima in solitario e poi amplificata dai backing vocals; questo binomio viene più volte ripreso nella composizione con variazioni tonali e inframezzi tastieristici ed elettronici, a volte ossessivi, fusi nelle guitar sessions languide, leggermente distorte da un bending conclusivo, morbido e sfumato.

La chitarra eleva un assolo acuto e malinconico, indugia sulle note di inframezzo e poi si lancia galoppando mentre Chris Ousey fa scivolare le liriche con gentilezza, ripete con forza e si unisce nel coro che dà il nome all’ennesima dichiarazione di intenti: “Take A Chance!”. Dopo lo stacco, riprende il fraseggio che prosegue con un assolo triste e dissonante, accompagnato dalla voce in rilievo; la composizione termina con i vocals fusi nel tenue vibrato di chiusura.

La conclusione è affidata alla forza emotiva di Goodbye Don’t Mean Forever, nella migliore tradizione AOR: il duetto voce-chitarra prende il sopravvento tra gli inframezzi corali, mentre le scale del guitar solo, enfatizzate dal bending, dilatano lo spazio musicale per suggerire una  tensione emotiva; in seguito, la chitarra svanisce, il dialogo tra tastiere e voce è breve e delicato, il  contrappunto ideale da dove la sessione ritmica riprende veloce e compatta.

La sessione chiude con i vocalizzi lanciati del cantante che accentua la carica passionale del brano.

In ultima analisi, bisogna notare che, sebbene il nome Bonham permise ai Virginia Wolf di suonare come spalla dei The Firm (super gruppo di Jimmy Page e Paul Rodgers), davanti a ben 20000 persone (!!!) e di guadagnare un certa visibilità con i videoclip di MTV, di contro, oscurava l’identità e le capacità del complesso, come spesso si lamentò lo stesso Jason già al tempo degli Airrace.    

Dopo l’omonimo, i Virginia Wolf pubblicano solo un altro album, Push, meno fresco del predecessore ma comunque valido.

Il sopracitato declino della scena britannica e il successo dei complessi americani non permetterà di dar giusta esposizione ad una band di valore come i Virginia Wolf, decretandone la prematura fine.

Eric Nicodemo

 

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