Recensione: Virus
La prog metal band inglese Haken ritorna con l’atteso seguito del suo precedente album (uscito nell’ottobre 2018), nuovo capitolo in realtà preannunciato da alcuni easter egg che possiamo trovare nel booklet di Vector. Virus sarà rilasciato, dopo vari rinvii, il 24 luglio, con tanto di batteriofago in bella mostra nell’artwork, ed è mixato e masterizzato (ancora una volta) dall’ex bassista dei Periphery, Adam Nolly Getgood. Il concept proposto è la prosecuzione della vicenda “psicoanalitica” ambientata negli anni Cinquanta: ritorniamo, infatti, nei meandri della mente umana, ma in questo sesto full-length gli Haken propongono la rivalsa del protagonista-paziente, che prende in mano la propria situazione e cerca di ribaltarla per darle un epilogo costruttivo. Molti fan, inoltre, si sono chiesti chi o cosa fosse il misterioso Cockroach King (il re scarafaggio del terzo brano all’interno del disco “The Mountain”). Bene, gli Haken hanno dato una risposta anche a questo all’interno di Virus, non solo sotto forma musicale (ci arriveremo più avanti), ma anche caratterizzandolo come un personaggio vero e proprio all’interno del concept.
Virus, a differenza del suo predecessore Vector, risulta più intricato nelle parti heavy, ma riesce a trovare anche un compromesso con le parti più tranquille. Il disco si apre con il singolo “Prosthetic”, pezzo che parte aggressivo con uno shredding micidiale, per poi rallentare con un Ross che interpreta magistralmente testi focalizzati sul disagio, le paure, le angosce e i pensieri negativi del paziente in analisi. Come sempre il giovanissimo bassista Conner Green (classe 1993) risulta in formissima e convincente nelle linee ritmiche, mentre per quanto riguarda il ritornello, forse siamo di fronte a uno dei refrain pop più belli dell’intera discografia targata Haken. “Invasion” regala momenti ricchi di pathos alternati a parentesi più interlocutorie, ma il bello di questo brano è che riesce a rapire l’ascoltatore anche nelle parti più semplici all’ascolto. Passiamo ora alla prima mini-suite, “Carousel”, con i suoi dieci minuti circa di durata. L’apertura strumentale è esplosiva, merito anche di Diego Tejeida che concepisce parti di tastiera alienanti, laddove Charlie Griffiths e Richard Henshall con le loro 8-corde riescono ad essere chirurgici nelle parti più prog/djent. Proseguendo l’ascolto, tuttavia, si perde il filo della composizione (per così dire), ma nelle parti solistiche e ritmate siamo di fronte al solito sound godibile dei nostri. La particolarissima “The Strain” è un brano che cresce con gli ascolti (strutturalmente ricorda a tratti il singolo “Prosthetic”), quindi dategli il giusto tempo per affascinare con il suo turbinio progressive, fusion, pop e alcuni momenti “nostalgici”. Il secondo singolo “Canary Yellow” sfoggia il lato più morbido e evocativo della band; è una traccia ben riuscita e anch’essa ha bisogno di tempo per essere assimilata.
Infine è la volta di una delle migliori suite che gli Haken abbiano creato lungo il concept (incluso Vector). Con la mastodontica suite “Messiah Complex”, suddivisa in ben 5 movimenti (Ivory Tower; Glutton For Punishment; Marigold; The Sect; Ectobius Rex) il sestetto inglese dà la risposta che tutti quanti volevano avere circa l’identità misteriosa del Cockroach King, che poi diventerà – udite, udite! – niente meno che il dottore menzionato all’interno del concept. Ectobius è il nome scientifico di un certo tipo di scarafaggio, ma non è solo questo, la sua valenza metaforica si estende in ambito musicale, cosa che manderà in estasi i fan degli Haken. Alcune parti strumentali della suite, infatti, sono palesemente dei reminder ad altre parti strumentali di “Cockroach King”, così come l’inizio del quarto movimento è molto simile all’avvio di “The Architect”. Non mancano, poi, riferimenti ambient alla Red Giant e ritroviamo anche il secondo assolo di “Prosthetic” a mo’ di rimando interno al disco. Tutta “Messiah Complex” nel suo complesso regala momenti epici di cui l’ascoltatore sarà appagatissimo: non si tratta, insomma, di un mero collage celebrativo, è una composizione con una sua struttura e logica interna, e non si sente la forzatura tra un passaggio di movimento all’altro. Il disco ci saluta, da ultimo, con la triste “Only Stars”, che è semplicemente una reinterpretazione cantata dell’intro “Clear” del disco uscito nel 2018. Tutto finisce come è iniziato.
Nel complesso gli Haken, dopo 13 anni di carriera, ci regalano un altro album degno di nota del prog moderno, un altro tassello importante nella loro discografia. La band inglese ormai sa quello che fa, le idee che hanno in mente sono sempre fresche e nella maggior parte dei casi non hanno mai deluso i propri fan, Virus ne è l’ennesima prova. Anche se in alcuni brani, infatti, vi è qualche momento un po’ sottotono, non è il caso di abbassare il voto al full-length, il disco infatti ha sempre dei momenti di recupero. Il guitarwork di Richard e Charlie è sempre impressionante, le parti di tastiera psichedeliche di Diego non risultano mai in secondo piano e sono sempre calzanti. Stupisce anche il drumming di Ray Hearne, che accosta momenti di pura tecnica e bravura a momenti meno complessi, dando il giusto equilibrio al tutto, mentre su Conner (il giovane bassista entrato nel 2014) nulla dire, anche in questa sede dà il suo contributo tecnico importantissimo. Ross Janings, infine, si conferma cantante angelico e sognante, e in questo album non mostra alcuna stanchezza vocale dovuta ai tanti concerti e sessioni di registrazione inanellati (incluso il recente album con i Novena); il vocalist è sempre sul pezzo, in perenne equilibrio tra acuti e range vocali meno impegnativi ma ugualmente emozioanti.
Uscito in un periodo storico che vede il COVID-19 come problema globale, il nuovo platter in casa Haken non ha bisogno di cautele particolari, parliamo in questo caso di un Virus innocuo, lasciatevi pure “infettare” da questa musica suonata e prodotta ottimamente.