Recensione: Vissza Sose Nézz
In Ungheria dire Pokolgép vuol dire HEAVY METAL.
Così come in Inghilterra per Saxon, Judas Priest e Iron Maiden, in Spagna per Baron Rojo e Muro, in Germania per Accept e Running Wild, in Francia per Sortilége e Trust e dalle nostre parti per Death SS, Strana Officina e Skanners.
Pokolgép vuol dire anche pietre miliari del METALLO quali Totális Metal e Pokoli Színjáték, con quest’ultimo forte di una fra le copertine più iconiche dell’Acciaio fatto musica a livello mondiale.
La Macchina Infernale – questa la traduzione più frequente e semplice di Pokolgép; l’altra, più complessa e meno accattivante, tira in ballo non meglio identificati ordigni pilotati da remoto – prese piede alla fine degli anni ’70 in quel di Budapest per volere di Gábor Kukovecz, Endre Paksi e Tibor Varga. Per un certo periodo il nome della band oscillò fra Pokolgép e Kommandó per poi assestarsi sul primo per sempre.
Suonare heavy metal in Ungheria a quel tempo equivaleva a macchiarsi di un reato, esagerando un po’. Di certo la società e i politici al governo non facevano il tifo per chi si dilettava fra chitarre sferraglianti e urla al cielo. A complicare ulteriormente le cose una situazione economica non fra le più floride. Difficoltà che non scoraggiarono un metallaro duro e puro come Gábor Kukovecz che, insieme con gli altri, riuscì a organizzare concerti semi clandestini nelle periferie più grigie di Budapest, incurante delle conseguenze. E fece bene, perché solamente pochi anni dopo l’aria cambiò di netto anche da quelle parti e l’Ungheria si aprì totalmente nei confronti dell’heavy metal, non solamente inteso come fenomeno musicale ma anche a livello di estetica associata. A quel punto la band poté finalmente pubblicare il proprio debutto su 33 giri, Totális Metal, nel 1986 e si cavò non poche soddisfazioni, fra le quali vanno annoverate senza dubbio le presenze, in qualità di opener, ai concerti di Metallica e Motörhead ma anche la serie di date che la vide protagonista dal vivo nelle due Germanie (Est e Ovest), Olanda e Belgio.
Dagli inizi a oggi sono intercorsi quindici album in studio e tre live, la formazione si è rimescolata più e più volte mantenendo una sola certezza, oltre al genere proposto: il fedele nocchiero Gábor Kukovecz perennemente al timone.
L’occasione per buttarsi a pesce sui Pokolgép la fornisce la pubblicazione del loro ultimo album, intitolato Vissza Sose Nézz – Mai guardarsi indietro, il significato – un concentrato di heavy metal declinato lungo dodici canzoni – dieci più due bonus track – per più di tre quarti d’ora di ascolto, licenziato sul mercato dall’etichetta GrundRecords di Budapest. Il Cd si accompagna a un libretto di otto pagine con i testi e le note tecniche di prammatica, il tutto rigorosamente in lingua ungherese.
Ad affiancare lo storico chitarrista Kukovecz, in formazione, Bánhegyesi Richárd alla voce, Z. Kiss Zalán all’altra ascia, Pintér “Pinyő” Csaba al basso e Kleineisel Márk alla batteria.
Come esplicitato a inizio recensione i Pokolgép vanno annoverati a tutti gli effetti come dei fedelissimi alla linea: da sempre la loro proposta è stata heavy metal, heavy metal e basta, con cantato in ungherese, senza nessuna contaminazione né svisata. Vissza Sose Nézz non fa altro che confermarlo, se mai ve ne fosse stata la necessità. A partire dalla title track – il pezzo migliore del lotto – sino a giungere a “Amíg a Tűz Tombol“ Kukovecz e soci alternano mid tempo massicci con grandi chitarrone a sostegno che ricordano da lontano la marzialità degli Accept a inserti dalla melodia inequivocabile che li fanno associare ai Tierra Santa – idioma a parte, of course…- quando ancora facevano i Tierra Santa. Gli episodi velocistici rispondono ai nomi di “‘Fogadj El” e “Tilos Csillagon”, senza mai superare i limiti, però. Alla casella ballad ricade “Utolsó Szívdobbanás”.
Dicevi bene, Gábor: mai guardarsi indietro!
Avanti così Pokolgép!
Stefano “Steven Rich” Ricetti