Recensione: Vøid

Di Daniele D'Adamo - 29 Giugno 2018 - 14:30
Vøid
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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76

Into the dark in search of truth.

Gli Unborn Generation, nati nel 2002 in Finlandia, dal 2006 in poi hanno inanellato con regolarità una serie di sei album di cui l’ultimo, in ordine di tempo, è “Vøid”.

Come lascia intuire il loro motto ma non solo, esprimono una musica tetra e glaciale, visionaria nel configurare un universo freddo e desolato. Buio. Come il death metal da essi prodotto, denominato grind’n’roll ma senza che tale nome intacchi quello che, a tutti gli effetti è, appunto, death metal.

Death metal apparentemente rozzo ed involuto, che non dà adito a tentativi di assimilazione ad altre realtà del metallo della morte. A parte un forte flavour di swedish death metal, il combo di Pieksämäki-Jäppilä va per la sua strada senza preoccuparsi minimamente né di apparire né di sembrare.

Il tono dimesso della parte iconografica è difatti grigio scuro/nero, come il colore della copertina, volutamente anonima probabilmente per sottolineare una proposta complessiva che dia la sensazione di vuoto (“Vøid”), di non-esistenza, di… mai-nato (Unborn Generation).

Inoltre, lo scorrere delle song del full-length insinua un’emotività profonda ma introspettiva, girata all’interno dell’anima invece che all’esterno come spettacolo a uso e consumo della gente comune. O del metallaro comune, che dir si voglia. Il death metal di song come l’opener-track ‘Shadow’, per esempio, è violento e brutale, trainato per le mani dalla sulfurea voce di Juho “Bonzo” Airaksinen, acida e corrosiva come una colata lavica di Vulcano. Così come quello della successiva ‘Ritual’, sporco, duro, aggressivo.

In effetti in taluni episodi, tradizionalmente di durata ridotta, attorno al minuto (‘Preacher’), la formazione finlandese tende effettivamente al grindcore, seppure senza le esagerazioni ritmiche del medesimo, dando quindo l’idea, come più su accennato, di una sorta di caliginoso grind’n’roll, appunto. In questi casi, allora, la velocità del drumming disarticolato di Eetu “Lebro” Huttunen raggiunge la follia dei blast-beats salvo improvvise, brutali decelerazioni in direzione, a volte, addirittura, dello sludge (‘Trickster’).

Il tono complessivo del platter è comunque più che sostenuto, e gli Unborn Generation pare diano il massimo di sé nei frangenti più rapidi e rabbiosi (‘Terminal’). Del resto, l’alternanza di episodi altamente cinetici ad altri più ragionati fornisce un sufficiente diversivo all’insorgere della noia, dimostrando con ciò, alla base, l’esistenza di un buon livello del songwriting, sciolto e dinamico, diversificato per una più che discreta longevità del disco.

Il tutto, naturalmente, cucito assieme da questo stile così atipico che gli Unborn Generation sono riusciti a mettere assieme. Uno stile personale e adulto, in grado di mostrare il medesimo umore allo scorrere delle canzoni, che però sembra limitare la loro creatività, un po’ compressa nell’altalenare delle canzoni medesime; altalenare privo di sia di vette, sia di abissi.

In sostanza niente di eccezionale ma bensì qualcosa di ben studiato e altrettanto bene eseguito, con quel sound vagamente scollato e apparentemente privo di grande tecnica. Cosa che, invece, non è.

Anche se di primo acchito “Vøid” possa apparire un prodotto frutto del caso o quasi, gli Unborn Generation mostrano che tale percezione è errata nonché fuorviante. 

Basta saperlo.

Daniele “dani66” D’Adamo

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