Recensione: Vol. 4
Anno 1972: quasi tutte le bands che ai giorni d’oggi ci sono molto care, ancora non esistevano. Quasi tutte. Non a caso, infatti, ho usato l’avverbio “quasi”, ho fruito di questo frutto della lingua italiana poiché volevo appunto significare come, invece, i Black Sabbath già esistessero e fossero “abili ed arruolati” da bel po’.
Nati circa due anni prima e con già ben tre lavori alle spalle ( in rigoroso ordine di release: “Black Sabbath” , “Paranoid” e “Master of Reality” ), la mitica line up inglese, nel suddetto anno ’72, diede alla luce la sua quarta, vera, creatura: “Volume 4”.
La genesi di questo disco, che vide la luce a seguito di una serie di album che hanno segnato e segneranno per sempre la storia dell’ hard rock e dell’ heavy metal per le generazioni a venire, è molto insolita.
A quei tempi, infatti, i Black Sabbath stavano riscuotendo successi un po’ dappertutto e com’ è ovvio, il disco che ne avrebbe dovuto affermare la definitiva consacrazione, a due anni dalla formazione della band, è un eufemismo dire che era attesissimo.
Non che si fece attendere molto, questo no, ma una volta che il disco fu disponibile nei negozi, e che il pubblico iniziava ad ascoltare per le prime volte i pezzi che lo componevano, rimase interdetto di fronte al nuovo sound che i Sabbath avevano deciso di proporre in questo loro nuovo “Volume 4”.
La critica più aspra che i fans mossero al nuovo lavoro dei Sabbath fu quella di aver “addolcito” troppo i pezzi, pensato un po’ troppo ad affinare gli arrangiamenti ed a creare soffici melodie, piuttosto che a mantenere quello stile rapido e grezzo, che aveva contraddistinto i primissimi mesi di vita della band.
Effettivamente, ascoltando più volte questo disco, ci si rende conto che, molte di queste critiche furono fondate, ma questo non significa affatto, che la band abbia abbassato il livello qualitativo di molto, rispetto ai precedenti dischi, nossignori.
Andando progressivamente alla scoperta di questo lavoro, ci si renderà conto, dopo averlo ascoltato diverse volte, come Iommi e i suoi abbiano saputo spaziare in tipi di sonorità molto diversi fra loro, mantenendo comunque un omogeneità impeccabile, in fase di songwriting.
Il primo pezzo di cui mi voglio occupare non è la opening track del disco, bensì la numero tre, “Changes” che esprime in maniera perfetta tutti i cambiamenti e le innovazioni che i Sabbath hanno portato alla loro musica, grazie a questo disco.
Devo ammetterlo, a costo di sembrare blasfemo, ma non ho mai amato troppo la voce di Ozzy Osbourne: la considero troppo poco ricercata e tecnicamente poco preparata; però in questo pezzo mi sono in parte dovuto ricredere.
Sulle note di un dolcissimo piano, la voce di John Michael, qui veramente splendida, ci fa da guida in una serie di intrecci melodici che ci immergono appieno in un mondo di tristezza, che rende la nostra stanza, ormai completamente pervasa dal cupo suono di questo pezzo, posizionata in un luogo sopraelevato rispetto al resto della casa, grazie a delle angosciose sonorità che, adagio, ci cullano, fra acuti e note di pianoforte, in questo oscuro brano.
Altri due pezzi molto interessanti, e che caratterizzano appieno questo “Volume 4”, sono “Wheels of Confusion” e “Tomorrow’s Dream”.
La prima esordisce con un gradevolissimo riff di Iommi, e mette da subito in evidenza le caratteristiche principali che saranno proprie di questo disco, nel corso di tutta la sua durata.
A farla da padrone infatti, è una melodia di base piuttosto lenta ed articolata, che molte volte viene scandita dall’ ottimo basso di Geezer Butler. Questa base però, verso la metà del pezzo, andrà lentamente perdendo intensità, lasciando il posto ad un ritmo decisamente più veloce, che percorrerà il brano, aumentano anche leggermente verso la fine, facendo tornare il pezzo in parte sui vecchi standard dei quattro di Birmingham, ma mai completamente dimenticando quelle sfumature melodiche, che rendono questo disco così caratteristico e vero e proprio stand-alone della prima parte della trentennale discografia dei Sabbath.
La seguente invece, “Tomorrow’s Dream” è un pezzo che principia in modo decisamente più dinamico, andando però in controtendenza con il brano precedente, poiché a mano a mano che si continuerà con l’ascolto, esso perderà tutta la sua potenza, lasciando ampio spazio alla chitarra di Iommi, che ne percorrerà tutta la lunghezza con dei grandiosi riffs.
Un altro pezzo, esattamente il numero cinque del platter, “Supernaut”, rappresenta l’ennesima espressione della grandezza del duo Iommi-Butler, che si supportano a vicenda, lasciandosi spazio l’un l’altro, ove ce ne fosse bisogno, dando quindi ampio sfogo alle loro grandissime capacità.
Questo discorso è valido specialmente per Iommi che, sebbene la voce di Ozzy non sia troppo ispirata, riesce a conferire comunque un tocco di energia in più al componimento, creando quindi un’ atmosfera tutto sommato discreta, in un pezzo che, altrimenti, sarebbe stato l’espressione tipica del nulla.
Dove purtroppo Iommi e Butler non hanno saputo gestire al meglio la situazione, è certamente in “Snowblind”, canzone che dà l’impressione, in ogni singolo secondo di ascolto, di dover prima o poi esplodere in qualcosa di più veloce e potente, impressione che verrà però disattesa, creando, specie nei successivi ascolti, una sensazione di noia molto poco gradevole. Nel comporre questo pezzo, infatti, si mette in evidenza una delle pecche che avevo menzionato poco più su nella recensione: la troppa ricercatezza delle melodie. I Sabbath in questo brano, per cercare la melodia perfetta si sono impantanati in un arzigogolo di suoni piuttosto caotico, che rende il pezzo in misto fra il lento e il veloce, non conferendogli però in nessuna occasione, una identità propria, lasciandolo quindi a navigare nel profondo mare dell’ indifferenza.
La migliore composizione del disco, a mio avviso, è “St. Vitus Dance”. Lungo tutta la durata del brano, l’accompagnamento di Iommi, che si produce in un ottimo riff, come suo solito, dona alla canzone uno stile tutto suo, rockeggiante e melodico allo stesso tempo.
Qui il mix fra melodia e velocità, riesce in maniera perfetta, permettendo ai Black Sabbath di realizzare questo straordinario pezzo, di un gradino superiore rispetto al resto del disco. Unica peccha: la durata, che infatti è di soltanto 2 minuti e 27 secondi, lasciando quindi decisamente deluso l’ascoltatore che già pregustava i magici riffs di Iommi in un pezzo molto più completo e longevo.
Personalmente ritengo le critiche che sono state rivolte a questo disco, in gran parte esagerate. E’ vero sì che i Sabbath, con questo disco, modificarono in maniera piuttosto radicata il loro stile, ed è anche vero che spostarsi in maniera così drastica verso sonorità così ricercate non è mai facile ed è altresì semplicissimo incappare in errori elementari. Ma come in tutte le storie a lieto fine, i nostri eroi hanno saputi comunque smentire questi dogmi grazie alla loro inconfondibile tecnica, che li ha portati in ogni caso a comporre un album di tutto rispetto.
Daniele “The Dark Alcatraz” Cecchini
LINE UP:
Frank Anthony Iommi – Guitar
Terence Michael Butler – Bass
John Michael Osbourne – Vocals
William Ward – Drums
TRACKLIST
1. Wheels of Confusion / The Straightener
2. Tomorrow’s Dream
3. Changes
4. FX
5. Supernaut
6. Snowblind
7. Cornucopia
8. Laguna Sunrise
9. St. Vitus Dance
10. Under the Sun / Every Day Comes & Goes