Recensione: Volatile Waters
Formatisi nel 2005, i Magenta Harvest giungono solo adesso alla pubblicazione del debut-album, “Volatile Waters”. Ciò perché, in realtà, è solo dal 2009 che hanno comunicato a fare sul serio. E, da allora, oltre al full-length, nel carniere sono presenti due autoproduzioni: “A Familiar Room” (2011) e “Apparition Of Ending” (2012).
I quasi dieci anni di carriera si sentono comunque tutti, e per due motivi almeno. In primis, l’evidente dimestichezza dei cinque con i loro strumenti, più che sufficiente a dare a “Volatile Waters” un taglio rigidamente professionale; come del resto da scuola finlandese. Poi, il raggiungimento di quella maturità artistica necessaria per definire il proprio stile, il proprio marchio di fabbrica. Senza stravolgere i dettami basilari del death metal, infatti, Mathias Lillmåns e i suoi soci riescono a imbastire una struttura non particolarmente complessa ma ricca di personalità. Non a caso, trovare dei rimandi a qualche act che abbia percorso un sentiero analogo a quello dei Nostri non è affatto semplice. Anzi.
Dato atto dell’inclinazione primigenia per l’heavy classico, individuabile – soprattutto – nel rifferama, gli ampi tappeti tessuti dalle tastiere avvolti nel growling belluino di Lillmåns danno spesso l’idea di avere a che fare con una specie di gothic incattivito e accelerato; un po’ come quello in voga a metà degli anni ’90. La melodia, non a caso, fa spesso capolino dalle tracce di “Volatile Waters”. Una melodia che non si vergogna certamente a mostrare qualche nero merletto finemente ricamato, magari fra un blast-beats e l’altro. Così facendo, i Magenta Harvest riescono a combinare efficacemente segmenti violenti, duri e riottosi, a improvvise aperture melodiche spesso e volentieri gustose e accattivanti.
L’‘hit’ “Apparition Of Ending”, per esempio, è un lampante manifesto di quanto più sopra evidenziato, nel quale – oltre all’eccellente refrain – la successione di momenti più concitati ad altri maggiormente inclini alla riflessione formano un connubio dal buon valore artistico. Del resto, oltre alla citata song ce ne sono altre da evidenziare, con che si delinea un ulteriore elemento di pregio del platter e cioè la continuità. Continuità che rafforza l’idea che ci si forma al primo approccio di “Volatile Waters” sin dall’opener “End And No Remeberance”: i Magenta Harvest hanno chiaramente in testa quello che intendono suonare, e lo riescono a mettere in pratica anche bene. Mantenendo su livelli più che soddisfacenti un songwriting che non presenta cali di tensione. Mancando così filler e/o riempimenti vari, il disco scorre via con piacere; con quella decisa consistenza propria, soltanto, di chi possiede piglio e decisione.
Così, se da un lato “Spiteful Beings To Earth Were Bound” mostra la precisione cronometrica delle chitarre mutuando il groove ritmico del thrash, “One Walks Down”, “Spawn Of Neglect”, “Limbo In Rime” e soprattutto “Carrion Of Men” regalano sprazzi di melodic ‘nordic’ death metal ampi e profondi, gelidamente visionari nel pennellare aridi paesaggi artici. Con l’eccezione di “A Symposium Of Frost”, aggressiva ai limiti dell’hardcore più brutale e sguaiato, indicativa comunque dell’irriducibile attitudine degli scandinavi a pestare come dei fabbri.
Un’opera riuscita, “Volatile Waters”, che conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, l’innata vicinanza della Terra dei Laghi al metal estremo, meglio se venato dal colore blu dei sogni. Come quello dei Magenta Harvest.
Daniele “dani66” D’Adamo
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