Recensione: Volition [EP]
E tornano anche i Mordred, ce lo avevano promesso da molto tempo, la strada è stata lunga e sofferta ma la line-up quasi originale (comprensiva anche di Scott Holderby che nel 1994, all’altezza di “The Next Room” si era perso per strada, ma deficitaria di Gannon Hall alla batteria, rimpiazzato da Jeff Gomes) si è riassemblata per dare alle stampe, per ora solo digitali, un nuovo EP di 4 tracce, per la durata di un quarto d’ora abbondante, anche se in verità le tracce inedite sono 3 di 4, poiché “The Baroness“, messa a chiusura del disco, è il recupero dell’omonimo singolo già edito nel 2015, sempre e solo in formato digitale. Inizialmente l’emozione di risentire all’opera i Mordred assale qualsiasi cuore nostalgico, questa band ha fatto fuoco e fiamme sul finire degli ’80; dopo uno sfavillante esordio con “Fool’s Game” (1989), un platter capace di fondere suggestioni thrash, puro heavy metal e coraggiosi spunti funky, col secondo album (“In This Life“, 1991) i Mordred si consacrarono come i capofila del cosiddetto movimento funky metal, che durò un battito d’ali (un lustro, ad esser generosi un decennio) e un fazzoletto di produzioni, ma offrì emozioni irripetibili ai metalkid più open-minded dell’epoca. “In This Life” rimane ancora oggi un capolavoro indiscusso, un lavoro innovativo e sensazionale, una sfida stravinta, che vantava addirittura un DJ in pianta stabile in formazione (tanto in studio quanto dal vivo) ed una vera, convinta, brillante sinergia di sonorità metal ad elementi funky, senza alcun timore di essere tacciati di eresia o blasfemia (cosa invero abbastanza facile in ambito heavy metal all’alba dei ’90). Poi arrivo un ampio EP di 6 tracce (“Vision“, 1992), che mostrava un enorme potenziale e lasciava intravedere come sarebbero potuti ulteriormente progredire i californiani; peccato che qualcosa andò storto, visto che nel 1994 il frontman Holderby non era più della partita e “The Next Room” (1994), pur rivelandosi un lavoro alquanto interessante, aveva edulcorato alcune delle caratteristiche principali del Mordred sound (in primis il funky), i quali serravano i ranghi e badavano prevalentemente a non buscarne da parte di un decennio affatto tenero con le metal band provenienti dal decennio precedente. Quindi il buio fino al 2015, anno nel quale, come detto, la band si riaffaccia al suo pubblico con “The Baroness“, una sola canzone, troppo poco per spendere parole o sperare qualsiasi cosa.
Un gran lavorìo sottotraccia ci porta a questo 2020, nel quale i Mordred riescono finalmente a mettere insieme del materiale da offrire ad un’audience davvero affamata dei propri beniamini (e stremata dall’attesa). Ho imparato a miei spese che quando la condizione di partenza è quella appena esposta, meno aspettative si hanno meglio è, in parole povere: meno ci sarà il rischio di rimanere delusi. Exhorder, Trouble, Forbidden, Death Angel… l’elenco di band dal cui ritorno mi sarei aspettato 100 ed ho invece ricevuto 50 è lungo e pieno di amarezza. Certo è che ho davvero amato immensamente i Mordred e, almeno per questo, i ragazzi di San Francisco partivano con un bonus d’affetto non indifferente. “Not For You” viene fatta circolare qualche settimana prima della release date ufficiale. Il pezzo non è clamoroso, non fa immediatamente gridare al miracolo. Si sente che sono loro, c’è coerenza col passato, si assapora una certa familiarità e però ci sono dei però. Holderby canta poco e parla (leggi: rappa) troppo, il riffing è accattivante, nel chorus le coronarie non arrivano ad esplodere come dovrebbero, c’è della ruggine, ma ci si può stare; è il primo pezzo di quattro, vediamo cosa succede andando avanti. Rimanessero così le cose, saremmo almeno sulla sufficienza dignitosa. Segue “What Are We Coming To” e già i peggiori presagi prendono corpo. Una robaccia interamente campionata, niente chitarre, basso o batteria, una voce sistematicamente effettata e distorta (alla maniera dei cantanti trap), per una specie di intemerata senza né capo né coda in un album che intende rivolgersi ad un pubblico rock/metal. Intendiamoci, non ne faccio una questione di ortodossia, sarebbe assurdo trattandosi dei Mordred, vorrebbe dire non aver capito nulla della loro biografia ma, al netto di qualsiasi considerazione, “What Are We Coming To” è un banale intermezzo impalpabile, quello che senza tanti fronzoli si direbbe un riempitivo, che lascia un gigantesco punto interrogativo inevaso: perché? “The Love Of Money” ci rimette su binari più congeniali, anche se stavolta siamo più dalle parti di “The Next Room“, ovvero elementi funky ridotti al minimo, chiave di volta heavy-thrash di stampo rigoroso e istituzionale, con la risultante di una composizione solida ma priva di grandissimi spunti o invenzioni, un qualcosa che nelle track-list dei Mordred di 30 anni fa sarebbe scorsa via nell’anonimato. Si chiude con “The Baroness“, che a questo punto tocca rivalutare, anche qui, nulla di fenomenale, ma di gran lunga un pezzo preferibile ai due che lo precedono.
A conti fatti “Volition” non sembra mettere in evidenza una formazione dal grandissimo smalto. Dai Mordred avrei voluto decisamente di più. 16 minuti sono comunque pochi per giudicare ma d’altra parte questo è quanto ci offre la band, e considerando che oramai da qualche anno seguivo sui social media i loro annunci riguardo al nuovo materiale in lavorazione, giunto finalmente al traguardo della pubblicazione “Volition” si rivela – se non una mezza delusione – una release che non aggiunge assolutamente nulla alla storia dei Mordred, non lascia leggere con chiarezza quale potrebbe essere il loro futuro e, se possibile, mette sulla difensiva anche i loro fan più accaniti come il sottoscritto, perché alla prossima eventuale pubblicazione ci arriverei decisamente più sospettoso. Mi fa piacere che i ragazzi siano ancora in circolazione, abbiano voglia di suonare assieme e di non darsi per vinti, ma “Volition” è l’ultimo loro disco che prenderei in considerazione nell’occasione di scegliere qualcosa dei Mordred da mettere sotto i denti. Bentornati, ma c’è da lavorare!
Marco Tripodi