Recensione: Voodoo Hill

Di francesc0 - 4 Marzo 2006 - 0:00
Voodoo Hill
Band: Voodoo Hill
Etichetta:
Genere:
Anno: 2000
Nazione:
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90

Avvicinarsi a questo disco dopo aver ascoltato gli ultimi lavori solisti di Glenn Hughes (Building The Machine, Songs In The Key Of Rock, Soul Mover) sorprende e disorienta insieme. Come è possibile che i mille timbri e i virtuosismi soul di The voice si sposino così bene con i riff metallici di Dario Mollo? Ci vuole forse qualche ascolto di più per rendersi conto che la tensione tra queste due realtà apparentemente tanto lontane rende l’album uno dei lavori più intensi e commoventi degli ultimi anni.

L’inizio è con un riff classico e appena accennato. Sensitive esplode subito nella sua potenza con un urlo di Hughes e il suono infiammato della chitarra di Mollo.
C’è un’aria oscura e nello stesso tempo malinconica in cui si dispiegano tutte le canzoni dell’album, come se uscissero da uno spazio malvagio e freddo per ritornarci subito dopo. Forse merito anche del drumming possente e preciso di Roberto Gualdi, collaboratore stretto della Pfm.
Con la seconda traccia, Disconnected, è assolutamente chiaro che Mollo vuole sperimentare e osare di più. Miscela sonorità nuove, effetti e melodia per arrivare a un riff diabolico e contorto, molto vicino al thrash à la Pantera; attraversa un momento di pura melodia e ritorna alla cattiveria del tema principale, per chiudere in un’orgia di fischi e urla.
C’è subito bisogno di un attimo per respirare, e con la successiva Golden One, dedicata da Glenn alla moglie Gabi, possiamo gustarci un paradisiaco intreccio di chitarra e voce che va a scoprire un piccolo eden nella selva oscura e paludosa del Voodoo Hill.
Dario sembra scherzare quando gioca con un riff quasi country sulle sue corde, ma poi parte in quarta con la velocissima Spun In Lost Wages. Quattro minuti e mezzo on the edge, come la canzone maideniana che richiama. Dario sfoga tutta la sua sete di virtuosismo, mentre Glenn ci regala un “goodbye” che fa decollare malinconicamente anche questo pezzo verso lande sconosciute.
Omaggio al funky con Keep It To Yourself. Mentre Hughes si diverte a cantare e rispondersi con mille timbriche diverse, Mollo di tanto in tanto gira la manopola e inizia con l’headbanging.
Il pezzo scivola in un arpeggio acustico e dolce. Poi parte uno dei riff più grintosi e sofferti di tutto il disco. Per un brano, 24, che tocca uno dei punti più alti dell’album. Non è una ballad pacchiana o strappalacrime: qui è la chitarra che piange, è il suono che si illumina, è la voce che grida rabbia, ma senza lasciare speranze.
La disillusione prosegue con Just Another Monday. Si tocca il thrash più cadenzato, ma come sempre nel mezzo si approda a un terreno più melodico. Ma si tratta sempre di una melodia sinistra, perché lascia presagire il ritorno all’oscuro, a quel freddo e a quella violenza di cui si diceva all’inizio.
Anche la cover di The Gypsy, brano dei Deep Purple contenuto in Stormbringer (1974), lascia un senso di angoscia, e non è assolutamente fuori luogo in mezzo agli altri brani.
Ci avviciniamo verso la fine (o l’inizio?). Con Black Leather il senso dell’orientamento se ne è completamente andato. Sembra di sprofondare in una dimensione sconosciuta, e quello smarrimento che si intuisce già a partire dalle prime tracce, che si trasforma in malinconia e poi angoscia, ora diventa pura e sanguinosa paura.
E con l’ultima, sabbathiana Voodoo Hill di sicuro non si riceve un conforto o una risposta a tutte le paure se non la presa di coscienza delle stesse.
Il disco si chiude così, lasciando solo presagire quel grande, violentissimo ritorno che sarebbe stato Wild Seed Of Mother Earth.

Dario Mollo (chitarre)
Glenn Hughes (voce)
Roberto Gualdi (batteria)
Dario Patti (tastiere)
Max Matis (basso)

Tracklist:

  1. Sensitive
  2. Disconnected
  3. Golden One (Gabi’s Song)
  4. Spun In Lost Wages
  5. Keep It To Yourself
  6. 24
  7. Just Another Monday
  8. The Gypsy
  9. Black Leather
  10. Voodoo Hill

L’edizione giapponese dell’album contiene anche la breve strumentale The Match Song: suoni campionati, batteria elettronica, gradevole giro di basso e lavoro chitarristico molto da Satriani.

Nota sul voto: nessuna media tra le varie canzoni, paragoni con altri lavori o altro. Solo il fatto che sia un album suonato e cantato magistralmente, ricco di idee, innovativo in seno alla tradizione gli fanno guadagnare punti. E poi, da sei anni a questa parte, è uno dei pochi dischi che continuo a riascoltare periodicamente.

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