Recensione: Vortex of Perishment
I Terravore sono nati in Bulgaria nel 2015 da un’idea di Kalin Buchvarov e Ivan Lazarov, ai quali si è poi unito Trendafil Trendafilov.
Dediti ad un Thrash marcatamente Old School, radicato nelle feroci produzioni forgiate nelle fonderie della Ruhr dei primi anni ‘80, quelle dei Kreator in testa, si fanno conoscere a livello discografico nel 2017 con l’album ‘Unforeseen Consequences’, autoprodotto.
Il risultato è più che discreto e la band decide, nel 2018, di rafforzarsi, chiamando il chitarrista Boyko Nikolev.
Esperienza sui palchi, condivisi con nomi importanti quali i Kreator stessi, i Suicidal Angels, le Nervosa e molti altri, un EP nel 2019, una manciata di singoli, la partecipazione ad alcune compilation e poi, finalmente, il contratto con una label: la nostra Punishment 18 Records.
Ed è con l’etichetta Piemontese che il quartetto incide ‘Vortex of Perishment’, secondo album disponibile dal 27 novembre 2020.
Questo nuovo lavoro è il naturale proseguimento di ‘Unforseen Consequences’: stesso stile aggressivo e violento, ma più maturo, complesso e corposo ed anche se l’influenza esercitata dal quartetto di Essen è sempre parecchio evidente (soprattutto nella similitudine tra le voci di Kalin Bachvarov e Mille Petrozza), si riscontrano negli spartiti elementi tecnici più personali e la ricerca di una propria identità.
Alla base di ognuno dei nove brani che costituiscono il platter sta l’aggressione sonora continua, estenuante e martellante. Nonostante ogni pezzo sia costituito da più cambi di tempo, dal veloce al cadenzato, il disco non ha pause o momenti di riflessione ed il muro sonoro generato dalle ritmiche è sempre denso ed impenetrabile.
Riff e melodie taglienti ed incisive, ritmiche serrate, assoli dal ricco fraseggio vengono sparati a raffica e senza sosta dando vita ad una ‘forma-canzone’ mai banale, ulteriormente indurita dalla determinazione dei cori e delle contro-voci. Brani come ‘Poltergeist’, ‘Vespa Crabro’, ‘Carnal Beast’, giusto per citare i primi tre, colpiscono duro e tagliano in due ed i Terravore dimostrano, con questo nuovo album, di essere cresciuti tecnicamente.
E’ il songwriting nel suo complesso che è un po’ limitato. Nonostante ogni brano abbia, come già detto, una tessitura complessa ed articolata con tante soluzioni anche intriganti ed interessanti, il lavoro d’insieme è un po’ troppo omogeneo e non c’è tanta varietà artistica.
Questo lo rende un po’ dispersivo e va a discapito del coinvolgimento emotivo che, dopo la metà dell’album, tende a scemare.
In pratica, mancano i brani di punta, i pezzi che variano il livello di tensione, quelli che si ricordano sulla lunga distanza e fanno tenere l’album a mente.
Nulla di terribilmente compromettente, l’album alla fine non dispiace anche se, per il prossimo lavoro, si auspica una maggiore varietà nel songwriting ed un po’ più di originalità.
Il giudizio è comunque positivo. Attendiamo gli sviluppi.