Recensione: Vortex of the Worlds

Di Daniele D'Adamo - 8 Aprile 2024 - 18:30
Vortex of the Worlds
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Ora si chiama cosmic black metal. La sezione atmosferica del genere, cioè, deputata esclusivamente alla creazione di musica e parole che viaggiano nello Spazio.

Certo, le definizioni trovano il tempo che trovano. Forse bastava un meno impegnativo atmospheric black metal. Tuttavia, aver voluto approfondire una tematica che affascina da immemori millenni studiosi e appassionati di tutto il Mondo, ha consentito ai Labyrinthus Stellarum di salire sulla loro astronave per viaggiare là, dove nessuno è mai arrivato.

Per delineare i confini della proposta del combo ucraino occorre, però, partire da post-black, a sua volta forma di declinazione dell’enorme calderone che contiene al suo interno la shoegaze. Black metal fortemente caratterizzato da un uso straordinario di arrangiamenti, quindi, per creare quell’atmosfera di cui più su si è parlato.

Appena un anno dopo la cellula embrionale intitolata “Tales of the Void”, il debut-album, i due fratelli Alex Andronati e Misha Andronati hanno rifinito, limato e scatenato liberamente le loro idee grazie alla pubblicazione del secondogenito “Vortex of the Worlds”.

Un’operazione apparentemente di routine, che viene smentita immediatamente dall’opener-track ‘Transcendence’, dotata di una straordinaria musicalità attraversata, come scariche elettriche, da meravigliose melodie. Alex dona la sua voce, aspra, scabra; screaming che canta l’osservazione disperata dello sterminio di Gea, perpetrata dagli innumerevoli orrori di cui è capace il genere umano. Egli che, pure, intasa il disco, come più su accennato, con una potete immissione di tastiere, orchestrazioni, inserimenti ambient atti a scatenare oltre l’orizzonte degli eventi poderose allucinazioni sia acustiche ma, soprattutto, visive.

La morbidezza delle armonie della succitata canzone, ma anche delle altre, induce nella mente, infatti, uno rilevane stato lisergico, totalmente visionario, in cui si intravedono scorrere a velocità prossime alla luce stelle, pianeti, nebulose, galassie, buchi neri e tutti gli oggetti che costellano un Universo nato tredici miliardi di anni fa.

Ancora, ‘Interstellar Wandering’ traccia le coordinate astronomiche ove vagare nel vuoto assoluto fra un astro e l’altro. Il sound è pieno, ordinato, e spesso accarezza a mò di conforto il cuore dei coraggiosi viaggiatori del tempo, dilatato dalla teoria della relatività generale di Einstein. A mano a mano che le galassie, in allontanamento fra loro per la legge di Hubble-Lemaître, sfrecciano accanto all’astronave mostrando i loro indescrivibili colori, le loro stupefacenti forme ellittiche, la loro brillantezza di vita, ecco che sale all’orecchio il loro canto struggente.

Ebbene, “Vortex of the Worlds” segue tutte queste peregrinazioni muovendosi nello spazio-tempo per mostrare, con la meraviglia delle note, l’impareggiabile bellezza delle stelle a neutroni, degli sciami di comete, delle nane bianche, delle supenovæ che, come fantasmi, sbucano improvvisamente dal nulla (‘From the Nothingness’).

Il suono dell’LP, nonostante sia autoprodotto, è di un più che buono livello qualitativo, potendo quindi competere senza timori con le manifatture ufficiali. Probabilmente questo deriva da un’eccellente programmazione della batteria (per la quale c’è l’aiuto di Dmytro Bokhan), che rende il suono stesso professionale, distinguibile in ogni istante. Ma, soprattutto, spesso, profondo sino ad attivare le emozioni più tristi dell’animo umano, come una struggente malinconia derivante dal dolore del sogno infranto di poter davvero navigare sulle onde gravitazionali. Ferve, insomma, la nostalgia per incommensurabili paesaggi alieni osservati con l’occhio della musica, incastrati nella loro linea temporale percorsa dall’inizio alla fine senza deviare dal loro destino (‘The Light of Dying Worlds’).

La closing-track, che altre non è che la title-track ‘Vortex of the Worlds’, conclude l’epopea galattica dei Labyrinthus Stellarum scivolando in un immenso gorgo di Mondi in perenne equilibrio fra loro, consentendo così, magari, la nascita di un wormhole, o Ponte di Einstein-Rosen, per andare a esplorare parti dell’Universo lontane miliardi di anni luce.

E, lì, in un punto indefinito, finalmente, di morire.

Daniele “dani66” D’Adamo

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