Recensione: Vredens Tid
Pioggia e ancora pioggia batte sui primi secondi che aprono il quinto capitolo di devastazione della band svedese reduce da un tiranno Dödsfärd, un disco che intrappolava nei suoi 40 minuti i vecchi, aggressivi Månegarm dei tempi di Nordstjärnans Tidsålder e quei nuovi Månegarm che dovevano ancora nascere, e che finalmente sono nati: i Månegarm di Vredens Tid.
Sicuri ormai dei loro mezzi e della propria destinazione, i nostri quattro – felicemente capeggiati ancora una volta dall’eccellente Grawsjö che si divide tra il canto e il campionamento/realizzazione parziale della batteria – navigano tra i generi di loro competenza con fermezza da artisti ormai affermati e ben nutriti dalla Displeased Records che ancora una volta ci regala un digipak di tutto rispetto, senza libretto come ormai è consuetudine. Dicevamo che i tempi di Nordstjärnans Tidsålder e dell’acclamato Havets Vargar sono ormai maturati, e come tutte le cose che maturano, sono diventati gonfi, coloriti e ricchi di gusto, aggettivi che ben si prestano a tale Vredens Tid (L’età della furia) – un mix furioso e ispirato di vecchio black e folk che torniscono un viking metal d’alta classe, diviso equamente tra furia e grazia tanto da risultare un lavoro multiforme, da guardare sotto diverse angolazioni.
Il gusto con cui è stato creato Vredens Tid mi ricorda lo stesso gusto degli antichi Einherjer, soprattutto in fatto di evoluzione della canzoni e di peso della voce rispetto alla loro durata. Anzi, sarebbe meglio dire ‘delle’ voci, visto che quei timidi inserti femminili di Dödsfärd esplodono atomici in questo album, dove una iniziata Umer Mossige-Norheim affila con la propria voce le canzoni, donandogli quella profondità che hanno guadagnato band ormai leggendarie del folk scandinavo come il primo Vintersorg o gli Storm.
A scapito di una durezza che è andata via via scemando dai loro demo, ora disponibili su Vargaresa – The Beginning, la band ha guadagnato poliedricità e immediatezza: era inconcepibile ai tempi di Havets Vargar riuscire a mormorare una canzone addirittura durante il primo ascolto: la cosa ora riesce con facilità in Vredens Tid: struttura eclettica, cantato a più livelli e un deciso orientamento verso il live sembrano essere le parole chiave di quest’ultima incarnazione della band. Il lavoro di per sé è di livello alto, e apre le braccia alle nuove generazioni paganofile europee grazie ai temi trattati, di troll che distruggono le chiese a pugni, assalti contro il cristianesimo, battaglie sanguinose nelle gelide terre del nord ricoperte di ghiaccio… insomma, tutti quegli ingredienti immancabili in un buon disco pagan-viking-black-folk.
Attacchi tanto familiari quanto celebri riempiono l’aria fin dall’inizio con “Sigrblot“, dove il violino inizia immediatamente a impadronirsi del campo come fosse un “Vintage Whine” svedese con un violinista sano di mente, e cori barbari folk innalzano urla al cielo come sembra norma ormai delle nuove band pagan scandinave di successo. A riprova di quanto il viking black fosse molto più elitario e il viking folk sia molto più assimilabile basti notare come le band iniziate immediatamente con il viking-folk siano rimaste stabilmente inchiodate a quel genere, mentre quelle iniziate con il viking-black si sono date, due o tre album dopo, a una contaminazione sempre più pesante di paganità, intesa però come goliardia spirituale, più che come introspezione oscura, ora più che mai relegata alle frange più oltranziste del black europeo.
Non a caso stanno uscendo sempre più album assolutamente teatrali – come scordarsi l’epicità figurativa travolgente di Kivenkantaja dei Moonsorrow – che vengono sempre più presi come punti di riferimento. Le urla “odin!” di “Sigrblot”, i cori da pogo di “Dödens Strand” (Spiaggia della Morte), la splendida “Preludium“, 3 minuti e 33 secondi di suoni di battaglia intervallati da nitriti, riti preparatori, grida, ruggiti, senza alcun tipo di accompagnamento musicale (ancora la scuola Moonsorrow di Metsä), che termina con un crescere di pathos incredibile, tanto che sembra di avere di fronte agli occhi il campo di battaglia che si svuota per far posto all’eccellente title track “Vredens Tid“, punto di forza dell’album che è stato minuzionsamente preparato per ricordare in più punti quei larghi giri folk di “I Evig Tid”, forse la canzone più apprezzata dai fans del periodo post-Havets Vargar. E non viene risparmiato nulla in una semplice traccia: eterei canti femminili, brani brutalissimi e tirati in pieno black-thrash, tracce di scream, di brutal e di voci pulite circondate da violini e doppiacassa martellante. Come in ogni buona produzione di questo tipo non può mancare la lenta di turno, e “Svunna Minnen” ricalca un po’ la “Lok” di memoria Stormiana, anche se purtroppo non riesce ad arrivare al punto in poco più di un minuto, anche perché incalza la violenta “Frekastein” (Lupo di Pietra) e la seguente, a mio avviso la punta di diamante insieme a “Skymningsresa” (Viaggio del Tramonto), “Hemfärd” (Viaggio verso Casa) – struggente e ritmica ballata folk impersonata da un’accoppiata di canto femminile-maschile ispirata come se da quell'”Isjungfrun” di Vintersorg non fosse passato nemmeno un giorno. Tutti i testi, redatti come al solito dalla coppia Grawsjö – Almquist, vagano dal goliardico più assoluto di “Kolöga Trolltand” (Dente di Troll dagli occhi di carbone) all’ispirato poetico e introspettivo di Hemfärd, una dichiarazione d’amore e fedeltà nei confronti della vita e della natura di barbara semplicità e trascinante epicità.
Non si può negare che molte band abbiano riscoperto magicamente negli ultimi anni il loro lato Finntroll più sopito, complice probabilmente il devastante successo di questi ultimi grazie al loro folk senza troppi fronzoli che ha ispirato e creato, diciamo così, una barca sulla quale fa comodo salire finché il mercato non si saturerà. Incredibilmente ma vero, sia le band nuove che si cimentano in questo genere (Trollfest) che quelle vecchie (Månegarm, appunto) hanno creato prodotti di una varietà e di una finezza talmente appaganti che non resta che sperare che sempre più band seguano quest’esempio, a patto di rispettare i propri crismi personali, cosa riuscita perfettamente ai nostri svedesi.
È tornata anche in auge, insieme alla vena folk, quella voglia di divertirsi con le canzoni, quella voglia di utilizzare un umorismo anche un po’ nero nelle proprie produzioni: ne è un esempio lampante l’ottimo artwork di Kris Verwimp, che vede un enorme troll dalla fronte aggrottata che demolisce una chiesa a pugni, mentre i fedeli terrorizzati seguono il prete in fuga verso una montagna… che girando la copertina si noterà in realtà infestata da lupi che aspettano affamati la folla. Velocità, tecnica, un’ottima dose di goliardia e un gusto per il complesso che non ha tradito il marchio di fabbrica dei Månegarm è quanto bisogna aspettarsi da Vredens Tid; l’abbandono del black potrebbe creare dei problemi agli intransigenti, che potrebbero trovare questo disco più lieve di quelli precedenti, e anche un po’ di mainstream se vogliamo. Difetti reali non ce ne sono, si tratta solo di gusti personali. Inoltre la band dopo anni e anni di pigrizia si è decisa finalmente ad andare in tour, e ha dichiarato con forza che la direzione intrapresa è ottima, che hanno sempre ricevuto un feedback entusiastico dal pubblico, e che quindi è lecito aspettarsi ancora molto da loro, tutt’altro che intenzionati a smettere se i fans continueranno a sostenerli. E possiamo assicurarli che una band monolitica come loro non verrà abbandonata.
TRACKLIST:
1. Vid Hargen
2. Sigrblot
3. Skymningsresa
4. Kolöga Trolltand
5. Dödens Strand
6. Preludium
7. Vredens Tid
8. Svunna Minnen
9. Frekastein
10. Hemfärd