Recensione: Vultures Die Alone
Quando pensiamo al power metal, le prime immagini che ci saltano alla mente sono quelle di scenari fantastici, ricchi di creature da sconfiggere, cavalieri valorosi e principesse da salvare, in un qualche Regno sperduto nei meandri della fantasia degna del miglior J.R.R. Tolkien. Ripercorrendo a ritroso nel tempo la storia di questa poderosa musica, possiamo notare come effettivamente le band più iconiche si siano fatte le ossa proprio su queste tematiche, che man mano hanno creato, loro malgrado, uno scetticismo sempre maggiore riguardo una rivalsa tematica che pareva soltanto una fervida utopia. Col passare degli anni il power ha visto un susseguirsi di alti e bassi di non indifferente rilievo, sia che si trattasse delle band stesse, le quali si mostravano incapaci di rinnovare l’offerta per il grande pubblico, sia per quanto riguardava gli album, sempre meno accattivanti e poco innovativi; insomma, la principessa si mostrava evidentemente invecchiata e del drago non restavano che un mucchio di ossa e ceneri sparse al vento. Nonostante le apparenze, però, va ammessa la grande capacità di ogni artista di mettersi in mostra, di calcare i migliori palchi del mondo accompagnato da scenografie spettacolari e sempre interessanti, mantenendo così alto quell’interesse che pareva destinato a svanire nel tempo.
E per quanto riguarda il presente? Cosa possiamo affermare dell’impronta che questa musica ha in un’epoca dominata dalle note estreme, dalla violenza strumentale e da vocalist sempre più dediti a grevi urla impazzite, piuttosto che a odi alla luna o ad eroiche battaglie?
Un fedele alleato si ritrova senza ombra di dubbio in quel glorioso progressive che domina sempre più le scene moderne, con attori del calibro di Soen o Dream Theater, e saranno proprio questi ultimi che abbracceranno nel loro tour italiano (previsto per gennaio 2023) una realtà che con tre album all’attivo ha saputo attirare su di sé diversi riflettori, gridando a gran voce la propria musica e le proprie qualità cristalline. Oggi vi parlo della loro ultima fatica, datata 2021, nominata Vultures Die Alone: signori e signore, ecco a voi gli Arion.
Dopo un buon disco d’esordio e la sostituzione dello storico cantante con l’attuale vocalist Lassi Vaaranen, la band sforna il secondo album nel 2018 riuscendo, anche grazie ad un piglio musicale decisamente più elettrizzante, a trovare quella che forse risulterà la loro chiave di volta. Analizzando le caratteristiche della band si possono infatti riscontrare tutte le migliori qualità del buon vecchio power metal, arricchite da sonorità più moderne che non guastano mai. Ma come sappiamo non è tutto oro ciò che luccica, e capita spesso che anche nei migliori lavori si riscontrino sbavature che, come crepe in una parete, rischiano di sgretolare l’intero elaborato se esposte soprattutto all’attenzione di appassionati metallari più intransigenti.
È comunque importante esaminare per gradi questo Vultures Die Alone per capirne a pieno ogni sfaccettatura, dunque bando alle ciance e gettiamoci sulle tracce. Si parte in pompa magna con tre pezzi di altissimo livello: “Out Of My Life” , “Break My Chains” e “ Bloodline” caricano l’ascoltatore grazie a una performance impeccabile di ogni componente della band: la chitarra di Iivo spacca i timpani con riff massicci e sempre precisi, con la sezione ritmica che non perde un colpo sostenuta anche dalle bellissime effettistiche dalla tastiera di Arttu. Ottenuta l’attenzione vigile dell’ascoltatore, è il momento di proseguire il cammino: la quarta traccia, “I’m Here To Save You”, porta avanti il buonissimo lavoro dei brani precedenti, sfoggiando ancora una volta ottime tastiere, linee vocali di buon livello, seppur leggermente più easy listening, e riff comunque fruibili e piacevoli. Già da questo momento, però, l’influenza della nuova generazione musicale si fa sentire, con richiami evidenti a band come gli Amaranthe, che molto spesso esaltano la pomposità delle tastiere indebolendo la potenza sonora delle chitarre, evidente segnale di un cambiamento radicale nei modi di intendere il genere stesso.
Nella seguente “In The Name Of Love” troviamo la partecipazione della connazionale band Cyan Kicks, ma il risultato è un copia e incolla delle migliori caratteristiche della traccia precedente, anche se ci presenta il primo vero assolo di chitarra del disco, e sono soltanto applausi per Iivo Kaipainen: ciò che le sue note trasmettono vale l’intera traccia e ci fa ben sperare per ciò che andremo ad ascoltare in seguito. Arrivati a questo punto ecco lo scoglio duro di ogni album, ovvero la titletrack, che dovrebbe dare anima e profondità all’opera tutta: aimè, “A Vulture Dies Alone” è forse un tentativo mancato di fare qualcosa di ancora più aggressivo, perdendo però quella caratteristica che fino ad ora aveva tanto funzionato e attratto; ne consegue come risultato un accozzaglia di riff troppo aggressivi per la media ascoltata finora ed un ritornello poco ispirato e neanche troppo interessante, veramente un peccato. La settima traccia, “I Love To Be Your Enemy”, è un caso strano e complesso: la voce nelle strofe adotta una sorta di rap mal riuscito, accompagnato però da ottime orchestrazioni di sfondo, per poi entrare in un ritornello da 10 e lode: in casi come questo mi chiedo se le idee non siano confuse, o se si tratti soltanto di una eccessiva volontà di stupire; in entrambi i casi andrebbe aggiustato il tiro.
Nei 5:31 della strumentale “Where The Ocean Greets The Sky” troviamo un’isola felice, dove fare una sosta meritata e mettere un po’ le idee al loro posto: gli Arion fino a questo momento si sono destreggiati molto bene tra riff potenti e accattivanti, pur rischiando in qualche frangente di allontanarsi dalla giusta via, dando l’impressione di dover fare ancora molta strada. Ma questa strumentale? Be’, come accennato in precedenza, Iivo ha le conchiglie al posto giusto, e sfoggia di nuovo tutta la sua qualità in un brano travolgente e bellissimo, dove a tratti pare di sentire cantare lo strumento.
Arrivati alla fine di questo percorso uditivo, le ultime due tracce “I Don’t Fear You” e “Until Eternity Ends” appaiono quasi come un forzato riempitivo per fare del mero minutaggio: poca sostanza e tanto fumo negli occhi, o per meglio dire, confusione nelle orecchie. Menzione d’onore va sicuramente all’artwork, cupo e misterioso, dove la figura di un uomo ben vestito cela alle sue spalle delle ali nere e oscure, come a dimostrare che le apparenze sono spesso soltanto una maschera indossata per accecare la realtà.
Dunque quale realtà rappresentano veramente gli Arion? Sicuramente nuove stelle illumineranno il loro cammino, in un futuro che ci auguriamo porterà al mondo del power metal fresca linfa vitale dalla quale attingere e rinvigorirci: nel frattempo possiamo soltanto goderci lo spettacolo del loro concerto al fianco dei grandiosi Dream Theater, certi che le nuvole in cielo verranno squarciate dagli ululati delle note di questi rivoluzionari artisti, mentre dall’alto gli idoli del passato poseranno su di loro occhi ricchi di speranza e fiducia.