Recensione: Vuur van Verzet
Tornano sulle scene i cultori delle tradizioni pagane, gli Heidevolk. Come di consueto, anche in questo album, ci troviamo in un contesto storico reale. Si tratta di “Vuur van Verzet” tradotto ‘”fuoco di resistenza‘‘. In questo caso siamo trasportati nel territorio germanico, probabilmente nel periodo compreso tra il nono ed il tredicesimo secolo dopo Cristo, quando la resistenza delle tribù germaniche ha portato alla ritirata quasi definitiva dell’impero romano dai territori oltre il fiume Reno. Ma il contesto germanico non è l‘unico ad essere affrontato in questo lavoro, in cui vengono decantati anche le gesta dell‘estroverso condottiero britannico Vortigern, il quale ingaggiò le tribù dei Sassoni, Jiti e Angli come mercenari, aprendo così a costoro la conquista dell’isola e alla formazione, tra l’altro, del futuro Galles. Alcuni avvenimenti di quel periodo ispirarono anche la nascita del mito de “la spada nella roccia”, attraverso i racconti recuperati dalle antiche rune sulle vicende del Dio Tyr. La narrazione prosegue avvolgendo l’ascoltatore nelle atmosfere mistiche e sciamaniche delle foreste arcane del nord Europa. La patria dei guerrieri leggendari e misteriosi come i berserker, benedetti dal Dio della guerra Woden. Tutto questo furore bellico, fuoco e sangue si conclude con una riflessione tutt’altro che scontata e molto attuale: il peso del tempo. Una storia di caos e ordine che si ripete all’infinito. Guerra, pace, oppressione e resistenza, incatenata e poi liberata; la storia si ripete costantemente. L’umanità sembra incapace di sfuggire a questo ciclo. Questi racconti, apparentemente cosi arcaici e arcani sono molto odierni e attuali, invece. Osserviamo oggi lo stesso meccanismo di oppressione del più forte sul più debole, per gli stessi interessi di potere, denaro e di espansione. Storie di resistenza, povertà e infine di migrazione. Uno dei fenomeni più antichi e naturali del mondo, che ha favorito la sopravvivenza della nostra specie nei tempi più remoti. Passando per la nascita delle civiltà più importanti della storia dell’uomo, arrivando poi alla creazione di paesi e culture nate a tutti gli effetti dall’immigrazione come il Galles o gli stessi USA.
Questa prolissa introduzione ha il compito di creare la giusta immersione nelle atmosfere tanto amate dagli Heidevolk. Una band del genere fonda tutta la sua esistenza creativa sulla narrazione, creando sempre album concettuali e intrisi di atmosfere mistiche e pagane. I testi, quindi, sono una parte integrante e fondamentale della formazione olandese. Tutto questo, tradotto in musica, ci catapulta inevitabilmente in un ambiente folcloristico di un Viking-Pagan metal. Viene inoltre mantenuto il tratto distintivo dei Nostri, rappresentato dalla doppia voce maschile, con inserti di voci femminili nei cori, il tutto arricchito da tanti strumenti acustici e tipici del folklore nordeuropeo. La struttura del disco segue una logica ben precisa e, ahimè, strizza l’occhio a un orientamento “commerciale”, o quanto meno troppo collaudato. Possiamo dividere l’opera in tre parti: la prima più aggressiva, secca e diretta, la seconda più sentimentale, folkloristica ed evocativa, la terza, e ultima parte, più intima, arcaica e misteriosa.
Il brano d’apertura ‘Ontwaakt’ è un tipico cavallo da battaglia della band, è il singolo scelto per questo CD, sostenuto da un bel video e da un’ottima produzione. Un pezzo diretto e aggressivo, molto più metal che folk, ritornello e cori orecchiabili e accessibili, il tutto per dare il “benvenuto” sia a nuovi che vecchi fan. Come già accaduto negli ultimi lavori, anche in “Vuur van Verzet” troviamo alcuni brani cantati in inglese, ‘A Wolf In My Heart’, appunto. Un brano che segue la stessa logica della canzone d’apertura, ma qui l’ascoltatore viene guidato verso un ambiente più folk, che rappresenta maggiormente la vera indole della band. Il ritornello, invece, è molto live oriented e svolge egregiamente il suo compito. Con ‘Onverzetbaar’ giungiamo alla conclusione della prima parte del disco. Il brano segue la stessa logica, ma il tutto scivola verso un ambiente sempre più tradizionale. ‘Yngwaz Zonen’ ci proietta verso la seconda parte del disco con il suo inno vichingo a suon di tamburi, il rumore del mare e delle navi da battaglia in viaggio verso le terre della ’Britannia’, un altro brano cantato in inglese, uno dei pezzi più riusciti dell’intero platter. Qui troviamo tutto: sentimento, accelerazione improvvisa, tecnica impeccabile, assoli di chitarre e strumenti acustici. Spiccano inoltre dei cori molto ispirati. Tutta questa bontà musicale non può che essere un antipasto per la canzone che possiamo definire il fulcro di questo lavoro: ‘The Alliance’, che eleva il tutto a vette ancora più elevate. Un brano epico sia dal punto di vista prettamente musicale che da quello concettuale. Ben fatto Heidevolk! L’apice dell’evocazione lo troviamo in ‘Het Oneindige Woud’, traccia strumentale molto struggente, che fa da ponte, per proiettarci nella terza ed ultima parte del disco, che inizia con l’ottima ed esplosiva ‘Gungnir’, piena di cori vichinghi e melodie che evocano divinità pagane, il tutto con una sentita e piacevole emotività. L’alternarsi di ritmi lenti e veloci, strumenti acustici e sonorità più pesanti, si ritrovano anche nella successiva ‘Woedend’, arricchita dalla tipica coralità vichinga e da un costante violino di sottofondo. A questo punto del disco si avverte quella che può essere la più grande critica a questo lavoro, un distante ma inesorabile senso di ripetitività. Le piccole variazioni apportate non bastano più a far emergere veramente un brano rispetto ad un altro. Ma per fortuna, i Nostri, non essendo degli sprovveduti, intuendo forse questo rischio, chiudono le danze con una canzone tutt’altro che noiosa, ‘Het Juk der Tijd’, che insieme alla già citata ‘The Alliance’, rappresentano i capitoli più riusciti di “Vuur van Verzet”. Una traccia veramente bella, che raffigura l’apoteosi del concetto creativo dell’ensemble olandese. Qui troviamo un folk metal fatto a regola d’arte, che ci lascia pieni di emozioni, in cui traspare una leggera e piacevole malinconia. Tutto ciò dimostra la grande maturità raggiunta da questa band.
Dopo un formidabile “Batavi”, album del 2012, e un fiacco e discutibile “Velua”, del 2015, ci troviamo di fronte a quello che può essere definito un buon lavoro, ma niente di più. A parte qualche raro caso, il quartetto olandese ha svolto bene il suo compitino, cercando di non deludere i vecchi fan e provando a conquistarne di nuovi, il tutto senza osare troppo, con un velato timore di non andare mai oltre le righe. Davvero un peccato, per una realtà musicale che coinvolge e appassiona proprio per la sua ricerca storica e culturale, oltre che quella musicale. Se poi, tutte queste bellissime premesse vengono mantenute solo in parte, o peggio, sono usate soltanto come uno strumento per accontentare l’ascoltatore, il tutto perde di credibilità e autenticità, elementi che invece dovrebbero essere fondamentali per gli Heidevolk.
Vladimir Sajin