Recensione: Waiting for miracles
Mein Gott, sono tornati i Flower Kings! Un po’ avevamo perso la speranza, dopo sei anni di silenzio e soprattutto dopo che i vari componenti si erano un po’ persi nei gloriosi meandri delle rispettive carriere e progetti alternativi. Dal 2013, anno dell’ultimo disco dei re dei fiori, Stolt ha pubblicato un album suo e uno con Jon Anderson, Fröberg ne ha pubblicati due suoi, Reingold ha fatto l’acrobata tra Karmakanic, Kaipa e The Tangent. Forse è stato però il disco di Stolt dello scorso anno, uscito peraltro sotto il nome di Flower King, ad aver indotto i nostri a tornare alla band “madre” – se così si può dire.
Un ritorno che riserva però sorprese, giacché lo storico tastierista Tomas Bodin è stato sostituito da Zach Kammins (An Endless Sporadic). Bisogna dire che l’avvicendamento non ha affatto inficiato il suono, al contrario: se l’ultimo “Desolation Rose” si era fatto notare per un cambio di stile, non riuscitissimo invero, dominato da sonorità piuttosto bislacche e in effetti più sperimentali, il nuovo parto dei nostri, “Waiting for Miracles”, è un chiaro ritorno alle origini.
Insomma, inforchiamo gli occhiali dalle lenti viola e tonde, mettiamoci il camicione a fiori d’ordinanza e saliamo sul maggiolone degli svedesi per l’ennesimo trip in space d’altri tempi.
In quest’album c’è tutto quello che ci si aspetta dai nostri, dalle melodie facili ai ritornelli orecchiabili passando per le lunghe divagazioni strumentali che spaziano tra vari stati di acidità psichedelica e lisergica. Una cosa va detta: anche in questa sede i Flower Kings si sono contenuti sul minutaggio, con due sole composizioni a ridosso dei dieci minuti. E ad onor del vero c’è da aggiungere che proprio ‘Miracles For America’ e ‘Vertigo’ sono tra gli episodi di più facile ascolto, ma anche tra quelli meglio riusciti, ai quali aggiungiamo per direttissima la più breve ‘Wicked symphony’.
Il disco procede a gonfie vele per buona parte della sua durata, tuttavia non mancano i punti morti. È questo il caso di ‘Ascending to the Stars’, quasi sei minuti di pura psichedelia lisergica che risultano davvero indigesti – anche a coloro che hanno adorato i passi più cerebrali della band (tipo ‘Circus Brimstone’, per dire).
È poi c’è il secondo CD. Sembra più un EP, venti minuti contro i sessanta del primo CD, e anche qui vi sono un pezzo buono (‘Steampunk‘), uno discreto (‘We are always here‘) e “Spirals”, altro episodio di divagazioni strumentali contorte e di difficile lettura. In tutto abbiamo ottantaquattro minuti di gran prog. E la sensazione è che, tenendo conto che gli album “mono” dei TFK vanno spesso oltre i 75 minuti, ci dimenticheremo abbastanza presto del fatto che “Waiting for Miracles” è un doppio.
Certo, andrebbe ricordato che i Flower Kings hanno un’età media ormai sempre più considerevole (Stolt ha 63 anni, Fröberg 55 e Reingold 50) quindi episodi sporadici di calo non possono stupire. Al contrario, sono poche le band che, superata una certa età, continuano a suonare fresche, nonostante casi di autocitazionismo esasperato. I Flower Kings in effetti non sono una band che si è evoluta granché in questi quasi 30 anni di carriera ma il fatto che i loro componenti abbiano animi di bambini (e non siano mai usciti dalla Summer of love) fa si che i loro album suonino sempre spontanei e sinceri. “Waiting for Miracles” è la loro tredicesima prova di studio e gli auguriamo con tutto il cuore di arrivare alla trentesima. Difficilmente ci stancheremo di loro.