Recensione: Wanderer
He seeks distance to change his perspective
In freedom and seclusion he arranges his thoughts
Strength and power he regains in nature’s shielding bosom
In vivid silence and familiar remoteness he can listen to his heart
Yet he experienced that from no wayfare you return the same
He knows that nothing will change until you change yourself
And therefore every revolutionary is a wanderer.
Christian Bass in luogo di Matthias Voigt alla batteria, tre anni da “Veto”. È l’ora di “Wanderer”, per i tedeschi Heaven Shall Burn. Che, assieme agli statunitensi Whitechapel, formano la più grande coppia deathcore di tutti i tempi. Almeno, a parere di chi scrive.
Certo, quando il livello è già il massimo umanamente raggiungibile – “Veto”, appunto – ripetersi è un’operazione sostanzialmente impossibile. Per le band normali, sicuramente. Per gli Assi, come appunto gli Heaven Shall Burn, no.
Partendo dal concept del loro ottavo album in carriera, anzitutto. Quello del vagabondo (wanderer). Che, nei momenti di confusione e difficoltà, si ritira dal caos che lo circonda. Potendo così – da una nuova prospettiva, con una rinnovata energia e una diversa messa a fuoco della realtà – affrontare i cambiamenti della vita con una mente rinfrescata e rafforzata. Una scelta di semplicità ma, soprattutto, di solitudine.
Solitudine che permea tutto “Wanderer”, irrorandolo di lacrime calde e salate, provenienti dal pianto dell’Umanità tutta nella consapevolezza della propria fragilità e caducità. Confluendo, esse, come un fiume placido ma d’infinita portata liquida, nella suite finale, “The Cry of Mankind”, splendido rifacimento della song dei doomster britannici My Dying Bride. La percezione di tale mesta rivelazione, del senso di non appartenenza se non a paesaggi vuoti, sterminati, freddi, trova sublime unitarietà con la fotografia della copertina, dovuta a Christian Thiele, nella quale, contemporaneamente, si scorgono gli elementi-cardine della Natura, e della solitudine: il cielo buio, la brulla montagna, la spoglia pianura e l’acqua, immota.
Per ciò che concerne l’aspetto prettamente musicale, hanno alzato, ed è qui che ci riescono solo i Campioni, il livello di classe messo in campo. A ogni full-length, Marcus Bischoff e i suoi compiono un passo in avanti, fondamentalmente dettato dall’aumento di esperienza non solo tecnico/artistica, ma anche di stage e di vita vissuta che, via via, giornalmente, a mano a mano che passano i giorni, ingigantiscono il loro sterminato retroterra culturale. Sono solo dettagli, magari.
Dettagli in una maggiore ricerca armonica minore, quella cioè che non regge i ritornelli ma fa da fondamenta per le strofe e i bridge, solitamente relegati al ruolo di comprimari. In “Wanderer” i brani sono tutti belli. A tutto tondo. Tutti. Dall’inizio alla fine. Non solo non ci sono vuoti compositivi e cali di tensione emotiva fra le canzoni, ma neppure all’interno di esse.
E, quando c’è da pestare duro, gli Heaven Shall Burn mettono al tappeto tutto e tutti, anche le giovani leve che, probabilmente, non riusciranno mai a raggiungere l’intensità, la pressione, la forza, l’energia, la possanza di pezzi indimenticabili quali, per esempio, ‘Downshifter’ o ‘They Shall Not Pass’, quest’ultima – come ‘Save Me’ – squassata da un main-riff titanico, gigantesco, terremotante.
La differenza fra gli Heaven Shall Burn e gli altri è questa: essi hanno un’anima che li rende unici nel panorama del metal estremo internazionale, Un’anima assai sensibile e reattiva che li rende capaci di lavorare al meglio anche sui quei dettagli apparentemente insignificanti. Aspetti che, assieme ai vari leit motiv che formano lo scheletro di tutte le song, fanno sì che la longevità di “Wanderer” non possa avere mai fine.
Heaven Shall Burn, i vagabondi della mente, i vagabondi del cuore, i vagabondi dei sogni.
Con queste premesse, “Wanderer” non poteva che essere un altro capolavoro.
Daniele D’Adamo