Recensione: War Of Kings
Tre anni fa Bag of Bones, all’epoca il più recente album della celeberrima band svedese di hard rock melodico Europe, certificò una svolta decisiva per il gruppo. Con quel full-length, infatti, Joey Tempest e compagni di ventura si sono lasciati alle spalle quello che negli anni ottanta era definito (talora anche in senso dispregiativo) hair metal, ma pure le tentazioni di aggiornare il proprio suono snaturandolo con chitarroni ribassati di qualche traccia post reunion.
I cinque musicisti scandinavi hanno abbracciato, di contro, con tale lavoro, gli umori di un retro rock devoto ai classici del genere, quali Rainbow e Whitesnake, e pieno di rifiniture blues come si usava negli anni settanta.
Tale sterzata, baciata anche da un lusinghiero riscontro commerciale, da un lato ha scontentato alcuni degli irriducibili melomani dei tempi di Carrie, che hanno pure accusato Bag of Bones di scarsa personalità, dall’altra ha, forse definitivamente, sdoganato gli Europe presso il pubblico hard rock duro e puro, parte del quale non aveva mai del tutto smesso di considerare gli Europe una band troppo mainstream.
“War of Kings”, prodotto da Dave Cobb (già all’opera con i grandissimi Rival Sons), in uscita in questi giorni, dimostra che il suo predecessore era tutt’altro che un episodio a sé stante. Come largamente anticipato dalla band, il nuovo album è, invero, un esplicito omaggio ai maestri dell’hard rock classico, con la band che si percepisce evidentemente libera come non mai di suonare la musica che sente quale fonte d’ispirazione e che ha sempre amato.
Sia chiaro: omaggio, in questo caso, non vuol dire rinuncia alla propria personalità. La voce di Tempest, ad esempio, anche se non indugia mai più lungo le melliflue note della citata Carrie, resta sempre inconfondibile, ed il gusto melodico delle composizioni resta inalterato, come peraltro avveniva nei dischi dei grandi maestri.
La title-track War Of Kings , già largamente anticipata sul web, concede oscuri toni alla Black Sabbath appena rischiarati da una melodia tipica degli Europe odierni ma resa inquietante nel crogiuolo fosco di chitarra e tastiere, mentre Hole In My Pocket con la sua accoppiata invincibile di ascia e tasti d’avorio si palesa un arrembante brano devoto alla lezione di gente come Deep Purple.
Second Day dà il suo benvenuto all’ascoltatore col suo incedere zeppeliniano iniziale per poi aprirsi in una magnifica e radiosa melodia e dare spazio ad un assolo di Norum bello e nervoso; la successiva Praise You, se pure ha dalla sua lento e magico passo non dissimile dalla precedente, vede un Mic Michaeli memore di certi torridi crescendo tastieristici di Deep Purple e Uriah Heep.
Nothin To Ya è un brano deciso e tetro, pestato vigorosamente da basso e batteria, mentre California 405 si distingue, piuttosto, per le sue tastiere decisamente vintage che paiono originarsi dritte dritte da qualche album di decenni fa.
La rotolante e catchy Days Of Rock N Roll, si connota per i riff circolari di chitarre e tastiere, che richiamano i migliori Thin Lizzy (passione dichiarata di Joey Tempest e soci) mentre in Children Of The Mind è il basso scattante a farla da padrone in un brano nervoso con aperture melodiche.
Rainbow Bridge regala profumi e sapori mediorientali, sempre delineati dalla premiata ditta Norum & Michaeli, e luccica grazie all’apertura melodica sempre sorretta dalle tastiere; Angels, (With Broken Hearts), poi, è invece lenta e notturna e valorizzata da un canto pressoché perfetto e colmo di soul.
Light It Up chiude degnamento l’album “ufficiale” grazie a parecchio groove fissato dal basso palpitante di John Leven e da una chitarra sempre encomiabile.
Ma c’è ancora tempo per una bonus-track, la quale, una volta tanto, è una traccia significativa: parliamo di Vasastan, strumentale inconsueto e con sprazzi alla Gary Moore, con il suono della sei-corde che si libra magnifico e struggente.
Commento finale, come di prammatica: con War Of Kings, gli Europe, ancora una volta in questa loro seconda vita artistica, danno l’impressione che la libertà espressiva di cui sembrano godere, e la loro gioia di rendere un loro personalissimo atto di ossequio ai propri maestri, abbia reso imponente, sul piano esecutivo, nonchè definitivamente maturo, il suono del gruppo, con particolare riferimento alle performance di John Norum e Mik Michaeli.
Sono sicuro, peraltro, che anche quest’album susciterà controversi commenti e diversità d’opinioni, soprattutto, comprensibilmente, da parte dei nostalgici ad ogni costo dei tempi di The Final Countdown. Largo, dunque, ai commenti sul forum, ma si lasci comunque il vostro recensore libero di affermare il proprio massimo rispetto per gli Europe di oggi e di godersi appieno War of Kings con la testa, le orecchie ed il cuore sgombri da pregiudizi.