Recensione: Wardens of the West Wind
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Drive my dead thoughts over the universe
Like withered leaves to quicken a new birth!
And, by the incantation of this verse,
Scatter, as from an unextinguished hearth
Ashes and sparks, my words among mankind!
Be through my lips to unawakened earth
The trumpet of a prophecy! O, wind,
If Winter comes, can Spring be far behind?
(Percy Bysshe Shelley, Ode to the West Wind, 1820)
L’ode al vento dell’ovest del poeta inglese Percy Shelley, composta a Firenze, forse trasportata dal vento o forse sospinta dalle impetuose acque dell’Arno, dev’esser giunta fino a Pisa, terra natìa dei Wind Rose.
Un vento carico di pathos: le trombe della profezia del cambiamento s’innalzano infatti al cielo furente. Guerra. Il vento dell’ovest trasporta seco il suono degli scudi percossi dalla furia dell’uomo, mentre tutt’intorno echeggia il clangore delle spade in un turbinio assordante, e di lontano si sollevano gli inni per i caduti battaglia e per gli eroi mai dimenticati.
I nostri “guardiani del vento dell’ovest” si stagliano sullo sfondo bluastro della cover art, pronti all’imminente conflitto, per questo secondo full-lenght: “Wardens of the West Wind”. L’artwork è opera del solito Felipe Machado Franco, coi suoi colori digitali che ormai (nel bene e nel male) sono sinonimo di power metal. Un solo, considerevole cambio di line-up rispetto al disco precedente: al basso compare Cristiano Bertocchi (ex-Labyrinth, ex-Vision Divine), dapprima impegnato a supervisionare la produzione dell’album, entrato successivamente in squadra dopo aver saggiato la qualità della proposta.
Tamburi di guerra. Arpa. Chitarra. Flauto. Cori che sembrano attinti da Skyrim. Via con le chitarre distorte. La brevissima intro “Where Dawn and Shadows Begin” è un crescendo, preludio immediato quanto cinematografico (ormai diremmo pure videoludico) per una grande avventura. Lo stacco forse è un po’ troppo marcato, ma la vera openere “Age of Conquest” conquista (pessimo gioco di parole assolutamente involontario) con la sua rocciosità tipicamente nordica, e con quella sensazione di epicità che trasuda da ogni arrangiamento brandardiano, sui quali si innestano tutti gli elementi tipici del power metal, dal ritornello corale alla doppia cassa furiosa, fino al solo melodico. “Heavenly Minds” riprende gli stessi stilemi del pezzo precedente senza soluzione di continuità, con una lunga parentesi sinfonica che ricorda i Rhapsody più pomposi del secondo “Symphony of Enchanted Lands”. Peccato per gli oltre dieci minuti già trascorsi tra cori e sinfonie, in un ascolto forse un po’ troppo pesante.
Ci pensa la successiva “The Breed of Durin”, piccolo capolavoro dal tema tolkieniano (così come l’intero debut), a trasportarci negli oscuri meandri di Erebor, quella Montagna Solitaria narrata ne Lo Hobbit, tana del drago Smaug. Thorin Scudodiquercia sarà l’erede di Durin a sedersi di nuovo sul trono sotto la montagna, dopo le avventure di Bilbo. Il pezzo è pura epicità, dal riff sincopato dell’apertura con tastiere d’atmosfera al refrain possente. Notevole, come del resto in tutto il disco, l’interpretazione ed il timbro di Francesco Cavalieri (nomen omen), dalle parti più aggressive al coro.
Ancora l’atmosfera a farla da padrona, con pianoforte e clima più leggero in “Ode to the West Wind” dedicata all’opera di Shelley, con tanto di intermezzo narrato. Virata piratesca alla Alestorm nella lunghissima “Skull and Crossbones”; anche qui il pezzo è davvero complesso e meritevole, ma forse fin troppo articolato e pesante. Dalle navi all’impero romano, con l’intro “The Slave and the Empire” che fa da preludio all’arena di “Spartacus”, altra highlight del disco: un lungo inno alla libertà ed alla ribellione scaturita dalla rivolta del celebre gladiatore della tracia. “Ave Caesar Morituri te Salutant”… da brividi!
Chiusura più che degna con il dittico “Born in the Cradle of Storms” e la successiva “Rebel and Free”, brano dal quale è stato realizzato un video che è anche un manifesto dello stile guerresco e ribelle della band, di certo a suo agio nei panni di scenografie alla “300”.
“Wardens of the West Wind” è un disco di indubbia qualità tecnica, forse un po’ troppo lineare e prevedibile nello stile compositivo ma con alcuni picchi decisamente sopra le righe per il suo genere, con diversi brani degni di essere ascoltati e riascoltati; album peraltro forte di una produzione davvero di livello presso i DGM Studios di San Marino.
I guardiani Wind Rose ci donano così con “Wardens of the West Wind” un disco potente, muscoloso, cinematografico, epico e corale – un inno di battaglia che si leva imperioso al cielo, un canto antico trasportato dal vento dell’ovest, che ci racconta le storie di eroi impegnati nella sempiterna lotta verso la libertà.
Over the hills we aim for the glory.
The time for the triumph has come!
Luca “Montsteen” Montini