Recensione: Waves Of Loss And Power
Come non gioire per il ritorno degli Ice Age? La band newyorchese ha regalato due album di ottimo progressive metal a fine millennio, The Great Divide e Liberation, con pezzi trascinanti come “Perpetual Child”, “Lhasa Road”, “Blood of Ages”. All’epoca alcuni lamentarono l’eccessiva vicinanza con i Dream Theater di Scenes From A Memory, ma passati più di vent’anni possiamo dire che erano dischi che farebbero impallidire gran parte delle uscite odierne. Durante questo lungo iato la band ha cambiato nome in Soulfractured per poi riformarsi dalle ceneri nel 2015 con il moniker originale e formazione invariata salvo per il bassista Doug Odell, comunque in forze dei nostri dal 2001. Waves of Loss and Power è la loro occasione per rilanciarsi, vediamo se l’obiettivo è stato raggiuto oppure no.
L’opener “The Needle’s Eye” (primo pezzo reso disponibile come singolo) ha un buon tiro e il groove non manca. Il basso è pulsante, il sound rievoca quello del passato, ma basta poco per capire che non stiamo parlando dei tempi di The Great Divide. Più che a un progressive metal siamo di fronte a un hard rock venato di blues vicino alla proposta dei Soulfractured. La tecnica è rimasta la stessa ma i nostri non vogliono sfruttarla appieno. I dieci minuti ottimisti di “Riverflow” sono ricchi di melodia e tappeti di pianoforte con Josh Pincus sugli scudi. Non siamo di fronte a un brutto pezzo, non sia mai, però tutto scorre prevedibile e di progressive (di nuovo) non c’è traccia. A seguire troviamo il sequel di “Perpetual Child”, il grande opener del debutto nel lontano 1999. Ha senso proporre una seconda parte di tale brano o è solo fan service? È vero che i Dream Theater pubblicarono Metropolis Pt II sette anni dopo l’omonimo brano contenuto in Images and Words, però qui parliamo di vent’anni di distanza… Il confronto tra le due parti come prevedibile è a sfavore del nuovo capitolo: il mid-tempo manca di potenza metal, non ci sono melodie memorabili, l’unica cosa che stupisce sono i sintetizzatori che a tratti ricordano quelli di Richard West dei Threshold.
“Together Now” è al limite del filler, Pincus osa fin troppo con le note lunghe, le velleità epiche e trascinanti non colpiscono nel segno, molto meglio allora godersi le atmosfere rock di “All My Years”, forse il brano più convincente in scaletta. Le chitarre sono abrasive come nell’intro di “Spare Chicken Parts”, poi il pezzo si rivela un hit quasi radiofonica, a metà tra gli U2 e i già citati DT di “I walk beside you”. Il refrain è catchy al punto giusto, le strofe funzionano, viene voglia di saltare e cantare al ritmo dei controtempi di batteria. Non male nemmeno “Float Away”, pezzo sornione e con un buon main riff potente. L’album sembra finalmente andare per il verso giusto anche se ormai è quasi terminato.
Chiudono il platter infatti i 15 minuti abbondanti di “To say goodbye pt IV-V” (le precedenti sono contenute in The Great Divide e Liberation). La ripresa della melodia che identifica il brano fa emozionare, il suono inconfondibile del pianoforte suonato da Pincus non può non commuovere i fan della band. Peccato per il prosieguo della suite, che in pratica si attesta su un registro blues che vede riproporre un dialogo ripetuto tra chitarra elettrica e pianoforte. Anche qui il progressive latita.
Terminato l’ascolto di Waves of loss and power la sensazione di fondo è contraddittoria. Basta l’effetto nostalgia del come back di una band di culto e un artwork surreale per gridare a un capolavoro? Purtroppo non è questa la chiave di lettura: gli Ice Age hanno realizzato un discreto album rock, con una produzione attenta e pulita, ma del passato restano solo i ricordi. Quello che non funziona in WOL&P è una certa mancanza di potenza e ispirazione, inoltre ci sono brani che danno un sequel ai pezzi storici della band ma non reggono il confronto con le parti precedenti. Molto meglio allora ascoltare l’opener e un pezzo catchy come “All my years”. Assente anche il lato melanconico e trascinante del combo statunitense che in passato l’aveva dotato di quel quid in più rispetto ad altre band simili. Ringraziamo comunque la Sensory Records per aver dato una nuova chance di visibilità al gruppo statunitense e sicuramente varrà la pena vederli live con una set list che includa i loro pezzi storici.