Recensione: We Are Heavy Metal
Terzo album ufficiale (oltre a quattro demo e uno split) per i true-metallers argentini Feanor, attivi con alterne fortune dal 1996. Se è vero che un libro non si giudica dalla copertina, è altrettanto vero che un primo impatto accattivante, che riesce a catturare l’attenzione del potenziale acquirente svettando nella massa, ha già compiuto metà del lavoro. In base a questo principio, un prodotto come “We Are Heavy Metal” sembra destinato a saltare all’occhio fin da subito, dato il livello di coatteria esibito da una copertina pervicacemente legata all’iconografia degli anni ’80.
Come già detto, i Feanor (da un personaggio del Silmarillion di sua maestà J.R.R. Tolkien, il cui spettro aleggia su molte composizioni degli argentini) sono dediti a un heavy metal che più Trve non si può e, oltre a contare tra le loro fila un certo Frank Gilchriest (avete presente Riot e Virgin Steele, vero?), hanno beneficiato in questo album della collaborazione, tra gli altri, di personaggi come Ross the Boss, Tony Martin e David Shankle. Con un parco ospiti del genere era lecito aspettarsi un certo tipo di approccio e in effetti, durante i primi ascolti di “We Are Heavy Metal”, la sensazione che mi ha pervaso è stata più quella di avere per le mani un tribute-album ai Manowar che non un disco a sé stante. Sia ben chiaro, non c’è nulla di male in tutto ciò: la scena musicale è sempre stata invasa da gruppi che si rifanno più o meno sfacciatamente ad altri, e in alcuni casi è addirittura successo che gli epigoni riuscissero a superare i loro modelli. Diciamo che a lasciare perplessi è il modo in cui le cose vengono fatte: l’album varca fin troppo spesso il confine sottile che separa una semplice influenza, per quanto pesante, da ciò che si trova oltre, e questo rischia di ridurre un gruppo di musicisti competenti a semplice macchietta, capace solo di riproporre un cliché dopo l’altro senza metterci del proprio.
L’album parte con la title-track, traccia granitica ma spaventosamente prevedibile, introdotta da un riff che trasuda testosterone e cafonaggine da tutti i pori e che farà la felicità di tutti i defenders più duri e puri, ma è con la successiva “Eol the Dark” che si entra nel magico mondo di “Into Glory Ride”: il basso di Gustavo Acosta si fa più smargiasso, e Sven inizia addirittura a fare il verso a Eric Adams. E qui inizio a pormi qualche domanda: possibile che il disco sia semplicemente una immensa trollata (per usare un termine molto caro ai gggiòvani), sulla falsariga di quanto proposto da gruppi nostrani come Nanowar e soprattutto Gli Atroci? Purtroppo la risposta, da quanto mi è parso di capire spulciando la bio del gruppo, è no: i Feanor ci credono, e ci credono anche tanto, e basta proseguire con l’ascolto per rendersene conto. Con la successiva “Earendil the Sailor”, infatti, i nostri tornano a sciorinare, dopo un’apertura molto delicata, riff densi e sulfurei, sorretti da una batteria quadrata e cori virili come la tradizione del vero trve-metallaro impone. Anche qui, come nella canzone precedente, i ritmi si mantengono lenti e marziali, concedendo un po’ di respiro da tanta tracotanza solo durante l’assolo. “The Discipline of Steel” punta su velocità più priestiane e ci consegna una canzone godibile e battagliera che, pur non aggiungendo nulla a quanto finora sentito, si lascia apprezzare grazie a qualche buona apertura melodica e un piglio leggermente meno pedissequo. “Water Gardens” è un semplice intermezzo strumentale che prepara la strada a “Dagor Nuin Giliath”, in cui la presenza di David Shankle contribuisce a dare più corposità (qualora ce ne fosse stato bisogno) al suono dei guerrieri sudamericani, con Sven che torna a vestire a modo suo i panni di Adams. Il brano sfrutta la sua lunghezza di sette minuti per articolare qualche cambio di tempo e di atmosfera, passando da momenti più tirati ad altri più contemplativi, ma anche qui, mi spiace dirlo, non si sente nulla che non sia stato già riproposto decine di volte dagli impellicciati barbari newyorkesi e dai loro innumerevoli cloni. “White and Blue” apre la seconda metà dell’album percorrendo la strada della ballatona tutta power chord da cantare a squarciagola: l’operazione riesce a metà, perché se è vero che la traccia non è altro che l’ennesima fiera della prevedibilità, è altrettanto vero che il suo mestiere lo fa bene e il risultato se lo porta a casa senza problemi. Se posso permettermi una nota a margine, ritengo “White and Blue”, nel bene e nel male, lo specchio di tutto l’album: un lavoro tecnicamente ben eseguito, aggressivo e cafone, ma che non si discosta di un millimetro da un sentiero già talmente battuto e codificato da essere ormai diventato un mero esercizio di stile. Da qui a diventare una semplice cover band il passo è breve.
“Crying Games”, complice la presenza di Tony Martin alla voce, alleggerisce un po’ il carico di testosterone barbarico della canzone, che comunque non cala oltre i livelli di guardia vista la presenza anche del signor Ross the Boss (già presente con la sua chitarrona nelle prime due tracce). Ecco quindi che i riff, per quanto corposi e muscolari, si fanno agili per seguire le evoluzioni vocali di Tony e confezionare così una canzone che strizza l’occhio a un certo heavy rock prima di passare a “The Visitors”, il cui largo ricorso ai cori ne rende l’andamento più anthemico. Anche qui, la presenza di Ross the Boss aggiunge corposità al brano che, nonostante i suoi sette minuti e mezzo, si lascia ascoltare regalando trionfalismi a profusione.
“In the Darkness” torna alla prova di dettato direttamente dal manuale del vero metallo senza strappare più che una sufficienza, mentre “The Scribe” è un intermezzo narrato che potrebbe essere descritto come una sorta di Wannabe Warrior’s Prayer. Siamo così arrivati alla conclusiva “The Epic of Gilgamesh Pt. 1 (the Quest for Glory)”, traccia dal ritmo adrenalinico durante la quale i nostri sparano le loro ultime cartucce tutte in una volta: cori, tracotanza, piglio guerriero e un certo gusto per le melodie rendono questa canzone una delle migliori dell’album, ma anche qui non aspettatevi nulla di vagamente originale.
Se avete retto il mio sproloquio fino a questo punto vi sarete già fatti un’idea della valutazione su quest’album, e se avete anche sbirciato il voto qua sotto vi starete chiedendo come mai non ho infierito con una stroncatura più netta. Semplice, vi rispondo io: alla fine, pur essendo totalmente derivativo e privo della minima personalità (cosa molto grave se si considera che il gruppo non è certo costituito da ragazzini esordienti ma è attivo da vent’anni), quest’album si lascia ascoltare e, a tratti, riesce perfino a divertire.
A patto che viviate di pane e Manowar, s’intende.