Recensione: We Are The Apocalypse
“I take a deep good look inside myself.
I open up the gates to let the Devil in.”
Quando si parla di black metal è difficile mettere tutti d’accordo, perché è un genere che per sua natura è sfuggente e in eterna contraddizione con se stesso. Pensiamo al più grande paradosso: il black metal viene identificato con la Norvegia, ma la sua nascita (seppur con qualche divergenza) viene fatta risalire a Quorthon, che, per l’appunto, è svedese. E probabilmente anche questo album farà molto discutere, un po’ per le scelte artistiche, un po’ per la valutazione dello stesso.
“Where Shadows Forever Reigns” segnò una linea di demarcazione con il passato, con l’azzeccatissimo cambio della voce, perché, al di là della riverenza che deve essere attribuita a Emperor Magus Caligula, va comunque detto che Heljarmadr è indubbiamente di un livello tecnico superiore. Dopo un assordante silenzio di sei lunghissimi anni, arriva “We Are The Apocalypse”, che continua sulla falsariga del suo predecessore segnando probabilmente un’involuzione agli occhi dei puristi del sound. Perché se è vero che l’avvicendamento del solista è stata una miglioria tecnica importante, va sicuramente registrato un cambio nella costruzione delle canzoni, che cerca di privilegiare il talento di Heljarmadr a discapito del lavoro di Lord Ahriman, facendo perdere forza e potenza alle canzoni da un lato, e dando maggiore melodia dall’altro.
Il concept, davvero molto bello, è un omaggio alla storia di questo gruppo e ne ricalca il suo passato dandogli un tocco tolkieniano: l’immagine centrale dell’artwork, ricorda molto una sorta di versione anticristiana dei Nazgul; i ruderi, invece, ricordano quelli di Osgiliath nel film di Peter Jackson. Alberi spogli e cielo plumbeo danno alla cover un tocco “true”.
Nightfall ha il compito di aprire questa nuova esperienza: è un brano che va a mille, suonato con rabbia e velocità, in cui emerge lo screaming di Heljarmadr, che progressivamente ruba l’attenzione all’ascoltatore; il ritornello è orecchiabile. Let The Devil In è una perfetta sincrasi tra la tradizione e l’evoluzione di questo gruppo: un caldo e tribale drumming in apertura, conduce chi l’ascolta verso una dimensione più naturale – accentuata dalla semplicità dei suoni e della struttura che la caratterizzano – come se si volesse incoraggiare un rapporto più diretto ed intimo con Satana, al punto da lasciarsi possedere e condividere la sua visione umana e farsi suggerire azioni quali il sacrificio dell’Agnello di Dio. Non è un caso che questa canzone sia stata scelta come primo video promozionale di “We Are The Apocalypse”. “Servants Of God and the cross and the lamb/a gathering of fools/One by one they will crawl through the mud/to bow their heads to the Beast” : questi sono I primi versi cantati da Heljarmadr, forieri delle intenzioni belliche dei Dark Funeral. Brano potente, cattivo, con la giusta dose di anti cristianità, violenza: insomma, un brano che flirta diabolicamente con la fanbase. E’ indubbiamente il momento più alto del disco. E qui inizia un album nell’album, perché le successive tre canzoni, sviscerano la tematica del vampirismo. Nosferatu è un gentile omaggio – neanche a dirlo – alla figura del vampiro. E’ un brano più educato e curato del precedente – non bisogna farsi ingannare dal pestaggio di Jalomaah. “I know today will be the day that I die, haunted by the winds and the gloom is unending”: tematiche e atmosfere si fanno più death e curate; è un oscuro commiato che, parafrasando San Francesco. potremmo definire “il cantico della Morte”; la base ritmica è azzeccatissima e la melodia eleva la struttura del brano. Beyond The Grave è un ritorno alla violenza, anche se qui le chitarre sono meno incisive e forti rispetto a “When Our Vengeance Is Done” impreziosito dalle melodie di Heljarmadr. A Beast To Praise è la prosecuzione del brano precedente: probabilmente, il tutto avrebbe potuto essere più appetibile cercando di unire le due canzoni o comunque posizionarle diversamente nella track list, lasciando più spazio tra le due. Leviathan è un bell’omaggio alla creatura degli abissi, il serpente marino citato tanto nella teologia, quanto nella bibbia ebraica, tanto dai filosofi (Hobbes) come simbolo del potere totalitario dello Stato. L’arpeggio iniziale è molto bello e, sebbene le chitarre siano soffocate dalla batteria e dal cantato, riescono ad impreziosire la traccia, emergendo, con dei fraseggi che rievocano la creatura degli abissi. Leviathan è un bell’omaggio alla creatura degli abissi, il serpente marino citato tanto nella teologia, quanto nella bibbia ebraica, tanto dai filosofi (Hobbes in particolare) come simbolo del potere totalitario dello Stato. L’arpeggio iniziale è molto bello e, sebbene le chitarre soffocate dalla batteria e dal cantato, riescono ad impreziosire la traccia, emergendo, con dei fraseggi che ricordano da vicino la creatura degli abissi. Chiude la titletrack, che sostanzialmente è un ritorno al passato: il testo attinge, a piene mani, alla “rivelazione” di San Giovanni; i ritmi si fanno veloci e violenti, e le chitarre (era ora) ritrovano la loro dimensione, dimostrandoci quanto sia prezioso per il gruppo il lavoro di Lord Ahriman.
Partiamo col dire che nel valutare questo album non si deve commettere l’errore di paragonarlo con il passato, perché quei Dark Funeral non esistono più e il black metal così concepito è ormai un ricordo lontano, che qualche nostalgico saltuariamente risveglia; la chiave di valutazione, dovrebbe essere quella di confrontare questo disco con tutto ciò che attualmente è la scena black. Per intenderci: avrebbe senso paragonare l’ottimo Daemon con De Mysteriis Dom Sathanas? Come non avrebbe senso paragonare questo “We Are The Apocalypse” con Diabolis Interium. Non ha senso. Epoche diverse, contesti diversi, storie diverse. E soprattutto musica diversa. Parliamoci chiaro, questo è un buon album, non scevro da errori che, se superati, ci avrebbero consegnato un grande lavoro. Per stessa ammissione di Lord Ahriman, la band ha cercato di superare la rigidità del black/death metal, rendendo le tracce vocali più melodiche e utilizzando anche, per la prima volta, chitarre pulite: lo stesso chitarrista non ha mai nascosto di comporre utilizzando la chitarra acustica. Questo è un album che prosegue il lavoro di rottura del precedente. Probabilmente, la scelta non è neanche del tutto sbagliata, perché è effettivamente vero che la scena black e death siano piuttosto rigide, e quindi cercare nuove soluzioni darebbe al movimento nuova linfa; tuttavia, la soluzione artistica trovata dalla band lascia perplessi su alcuni aspetti, primo tra tutti la “scazzottata” tra linee vocali e chitarre: a volte le une prevalgono sulle altre, e poi viceversa; il risultato, quindi, è tutt’altro che omogeneo, creando un po’ di confusione in chi ascolta l’album. Ma soprattutto, penalizzando il grande talento di Lord Ahriman. Anche il songwriting ha delle novità, dedicando una sezione, quella composta dalle canzoni Nosferatu, When I’m Gone e Beyond The Grave in cui la tematica del vampiro emerge nella sua violenza e malvagità, senza tralasciarne il lato romantico.
Un lavoro che sicuramente va visto come un’opera di passaggio, sicuramente il prossimo album ci dirà molto di più sul futuro dei Dark Funeral.