Recensione: Weathering the Curse

Di Giorgio Vicentini - 19 Febbraio 2005 - 0:00
Weathering the Curse
Band: Draugar
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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61

I Draugar sono americani (come Leviathan e Xasthur), incidono per Moribund Records (come Leviathan e Xasthur) ed hanno un problema sostanziale: sono una band ostica (come Leviathan e Xasthur). Per non rischiare di sentirsi da meno rispetto ai colleghi, il factotum e mente unica del gruppo gioca duro sulla produttività, dando alle stampe due demo e tre full length in meno di due anni dal 2003.

Se per Hildolf l’ispirazione (o presunta tale) non è un problema, per molti lo sarà il suo stile musicale, che dopo svariati passaggi mi suona ermetico, non sempre calibrato e da raffinare, ma carico di insano magnetismo. I lidi sono quelli abbastanza in voga del “depressive”, dal piglio sperimentale che all’ascolto rende immediato il malessere, ma non si tratta soltanto di sofferenza emotiva bensì fisica e psicologica, vagamente accostabile al canone scelto dai Leviathan ma con minor profitto. Marchio della casa è l’atmosfera stralunata, fortemente atipica e a suo modo magica. 
Un sound studiato per scompensare, per nulla raffazzonato nelle intenzioni e che mieterà numerose vittime che potrebbero scacciarlo stizziti, per noia o fastidio. Se pensate che sto esagerando, vi invito a cimentarvi in sessanta minuti come questi, passando sotto le tastiere minacciose ed emotivamente destabilizzanti di “Wage A Final Battle”: una prova per masochisti delle emozioni, veri amanti della sofferenza auto inflitta e volontari consapevoli. 

Ammetto di essermi addirittura innervosito nell’ascoltare Weathering the Curse, che dimostra di avere delle frecce al proprio arco, ogni tanto declassate dalla prolissità e pazzia esasperata di alcuni spunti. Accettando di calarsi nella parte, spuntano i vari accorgimenti come le voci effettate, gli echi, le tastiere perfette per lo scopo ed alcuni campionamenti nascosti sotto la prima pelle dei suoni. Sono convito che una lieve registrata qua e là sarebbe un passo in avanti, rifinendo il supporto sul quale continuare a produrre del disagio in musica, evitando l’eccessiva asfissia tra le spire di questo sound alieno, migliorando senza stravolgerli pezzi come la già buona “Infernal Existence / Grey Horizons”.
Dal contesto pastoso ed ossessionato si distacca “I Come as a Curse”, semplice nel suo disarmante riff da lacrimoni, anche se eccessivamente stirata sugli oltre dodici minuti. 

Ciò che mi colpisce, è il mio cercare in vano di sfuggire da questo black deviato per restare mentalmente sano, dicendomi che quest’album è semplicemente brutto o mal fatto. Volente o nolente vi sono tornato più volte, per il piacere sadico di toccare una sicura fonte di dolore.
Ora la domanda topica: si può castrare un disco che non dimostra classe cristallina ma sembra così sincero e studiato nei suoi particolari? Io non ci riesco, anzi, perfino alcune brutture, come il suono fastidiosamente “sfrigolante” e la produzione che cela malamente alcuni spunti, sembrano voluti e proposti deliberatamente sotto questa forma. Addirittura l’eccessività di talune scelte, il drumming essenziale, la costanza un po’ tediosa della voce filtrata e lacerata, fanno parte di un disegno.

Sono quasi sicuro che per i più perversi questo sarà un colpo di genio, mentre per altri l’aborto di una possibile buona idea. Per me i Draugar non sono una band qualunque; potrebbero guadagnare qualcosa se ponderassero meglio le proprie scelte, evitando l’iper-produttività che non aiuta in questo senso. Disco molto più complesso di quel che sembri, forse troppo folle ed un pò sopra le righe.

Tracklist:
01. Warrior Without War 
02. I Come as a Curse 
03. Infernal Existence / Grey Horizons 
04. Wage A Final Battle 
05. Trails of Blood that Lead to Dark Corners 
06. 10 Fold / Tortured Old Soul 
07. Laughing and Bleeding 
08. Through the Dark Until You Die

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