Recensione: Welcome 2 My Nightmare
Impossibile parlare di un personaggio come Alice Cooper senza emozionarsi almeno un po’. Problematico ancor di più, quando ad entrare in gioco ci sono non solo il carisma di una figura unica e fondamentale per la storia del rock, ma addirittura alcuni di quegli elementi che hanno contribuito in tempi remoti a renderlo qualcosa di prossimo ad un mito. O ancor di più, a dipingerlo come una personalità molto simile ad un leggendario eroe dei fumetti, quasi irreale ed immaginario come Superman e l’Uomo Ragno, seppure concretissimo nelle vesti di uno straordinario artista che da circa quarantacinque anni – mese più, mese meno – calca le assi di un palco accompagnato da uno degli show più divertenti ed efficaci visibili in giro per il globo.
Un fascino ed una popolarità alimentata da una produzione di gran pregio, giunta ad un punto di sublimazione nel 1975, anno d’uscita del celeberrimo, intenso ed allucinato “Welcome To My Nightmare”, ovvero, di quello che a ragion veduta può essere considerato come uno degli apici massimi di una carriera lunga e proficua, oltre che uno dei passaggi di maggior rilevanza nella storia del (hard) rock.
Un disco scenografico e teatrale, hollywoodiano nell’impostazione, dotato di una crudezza di tematiche rabbrividente e di una sostanza musicale eccelsa tale da renderlo paragone invalicabile per chi, da quel momento in avanti, avesse deciso di sfruttare argomentazioni similari, orbitanti nel campo della paranoia e della pazzia umana, così come per qualsiasi discepolo del singolare filone musicale di stampo rock orrorifico.
L’idea di un secondo capitolo dedicato agl’incubi privati di Alice Cooper, una sorta di come back sui sentieri delle follie schizofreniche andate in scena più di tre decadi fa, era un argomento da considerarsi pertanto persino un po’ azzardato e forzoso: quasi impossibile replicare con la medesima efficacia i sapori e le atmosfere di un capolavoro senza tempo come quello messo in scena nel 1975.
Una strada, quella del tentativo di riannodare le fila con il titolo “simbolo” della propria discografia, già tentata in passato da altri grossi esponenti della scena hard n’heavy (uno per l’altro, i Queensryche con “Operation Mindcrime II”), molto spesso deludente e foriera di risultati nemmeno lontanamente accostabili all’esemplare primigenio.
Tant’è: Vincent Damon Furnier è artista che, alla luce di un’esperienza lunghissima ed onorata, nulla deve più dimostrare a nessuno, motivo per cui, anche l’uscita di un “Welcome To My Nightmare” parte seconda, può costituire valido motivo d’interesse per i tanti fan dispersi un po’ ovunque e ad ogni latitudine.
La certezza è, infatti, sempre la medesima che si fa garanzia ad ogni nuova uscita: “male che vada, lo zio Alice qualcosa di buono ce lo farà ascoltare comunque”.
Ed i presupposti vengono pacificamente confermati anche da questo “Welcome 2 My Nightmare”. Poco a che vedere con il predecessore (quello del ’75) in quanto ad intensità. Nondimeno, un lavoro per larghi tratti piacevole e divertente, con qualche chicca incastonata qua e là, ad impreziosire una tracklist che non fa sbraitare al miracolo ma rende comunque buon omaggio alla straordinaria carriera di un grande “principe” del rock.
Differenza immediata e riscontrabile “a pelle” è quella relativa alle atmosfere. In questa nuova interpretazione della galleria di incubi Cooperiani, si fa largo un sense of humor molto più marcato e visibile, un’ironia tagliente e sardonica che si distacca dai cupi sogni horror del feroce serial killer (Steven) del primo episodio andato in “onda” nei seventies.
La malinconia e la teatralità drammatica, si condensano, infatti, per lo più in un terzetto di canzoni. La bellissima ed hollywoodiana opener “I am Made Of You”, la struggente ballad “Something To Remeber Me By”, e la pesante e fosca “When Hell Comes Home” collezionano sensazioni forti e seriose, molto più accigliate di quanto sperimentato nel resto dell’album.
Già a partire dalla divertentissima “Caffeine” i toni si elevano, lasciando piede ad uno stile frizzante e – nonostante le lyrics sempre piuttosto grevi – persino gioioso.
Uno dei pezzi migliori del disco? Senza ombra di dubbio, soprattutto in virtù di un ritornello che si appiccica in testa dopo un breve istante.
Qualche dubbio nasce invece con “Last Man On Earth”, episodio un po’ monotono, sottolineato da grancassa e trombone, che ricorda un pelo certe cose scritte da Tom Waits nei momenti più fumosi.
Niente da eccepire invece, sulla carica di divertimento delle esuberanti e cadenzate “The Congregation”, “Ghouls Gone Wild” e del super singolo “I’ll Bite Your Face Off”. Sfruttando nuovamente le coordinate di alcuni album recenti come “The Eyes Of Alice Cooper” e “Dirty Diamonds”, lo stile si fa fortemente seventies, per ricondurre il disco esattamente nella dimensione in cui Alice Cooper e Bob Ezrin desideravano collocarlo attraverso suoni ed atmosfere: quella degli anni settanta di Rolling Stones, The Stooges e New York Dolls.
Deliziosa poi “I Gotta Get Outta Here”, piacevolissima traccia riassuntiva dall’incedere un po’ rockabilly, che vagamente richiama i toni cantautoriali di Tom Petty e del Bob Dylan più solare dei Travelling Wilburys.
Purtroppo, ad una serie di passaggi di buon fascino, fanno da contraltare alcune situazioni molto meno convincenti. La terrificante “Disco Bloodbath Boogie Fever” – un passaggio dance rock del tutto trascurabile – è sicuramente uno di essi.
La controversa “What Baby Wants”, pietra dello scandalo per alcuni a causa della collaborazione con la starlette pop Ke$ha, lascia invece piuttosto indifferenti. La giovane singer pare essere entrata parecchio nelle grazie di Alice al punto da arrivare a chiamarlo con un confidenziale “Dad” (babbo), tuttavia la domanda su quanto i due azzecchino assieme rimane. Ed il brano, un innocuo pop rock dalle sfumature dance (che di certo però, verrà apprezzato dai meno “intransigenti”), mantiene il quesito decisamente aperto.
Il finale di “Underture”, pezzo strumentale dal profilo ancora una volta fortemente cinematografico ed hollywoodiano – una sorta di colonna sonora che racchiude alcuni dei “main theme” della vicenda – dona un ultimo sussulto di teatralità al disco, conferendo un pizzico di magia aggiuntiva che non appare affatto sgradita.
Come si diceva, Alice Cooper, in un modo o nell’altro, qualcosa di buono lo propone di consuetudine.
Un assioma vero e confermato anche stavolta. La crew di musicisti (con qualche vecchia conoscenza come Denis Dunaway, Michael Bruce e Neal Smith, oltre al grande Steve Hunter, già attivo nel primo “Welcome To My Nightmare”), compie il proprio dovere splendidamente.
Le canzoni, salvo qualche caso più fisiologico che fastidioso, riescono a regalare alcuni momenti sopra le righe, complice un gruppo di songwriter – tra i quali si segnala il rinnovato sodalizio con il celebre Desmond “Poison” Child – di grande esperienza e bravura.
Ed il buon Alice, adorabile come sempre nella sua maschera da beffardo cantastorie dell’horror rock, questa volta tiene botta meglio del solito, grazie ad un carisma inimitabile e ad una voce che il tempo non ha mutato, sempre unica nel suo genere ed ancora in grado di variare registro a seconda delle situazioni.
La formula insomma, rimane valida e non cambia.
Non c’è il capolavoro che qualcuno forse poteva pensare di ascoltare – il “Welcome To My Nightmare” del 1975 era ben altra cosa – ma con il vecchio Vincent, c’è comunque sempre da divertirsi. Almeno un po’.
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Tracklist:
01. I Am Made Of You
02. Caffeine
03. The Nightmare Returns
04. A Runaway Train
05. Last Man On Earth
06. The Congregation
07. I’ll Bite Your Face Off
08. Disco Bloodbath Boogie Fever
09. Ghouls Gone Wild
10. Something To Remember Me By
11. When Hell Comes Home
12. What Baby Wants
13. I Gotta Get Outta Here
14. The Underture