Recensione: Welcome To Paradise
Nati alla fine del 2017 per volere di Bill Hudson (Circle II Circle, Jon Oliva’s Pain, ex-Powerquest, ex-UDO), Christian Eriksson (ex-Twilight Force) e Patrick Johansson (ex-Yngwie Malmsteen), i NorthTale sono una nuova e promettente realtà in casa Nuclear Blast. Nell’ottobre del 2018 hanno dato mostra di cosa sono capaci con un teaser, mentre tra giugno e luglio 2019 hanno sfornato un paio di singoli (“Higher” e “Shape Your Reality”, con relativi lyric video). Ai primi di agosto tocca all’album di debutto: Welcome To Paradise ha una copertina intrigante (opera di F. M. Franco) ed è uno degli album power più recenti che merita un ascolto. Il sound degli svedesi è riferibile al power più canonico, con ritmiche serrate, acuti in falsetto, momenti barocchi e doppia cassa, ma visto che parliamo di una band scandinava le tastiere hanno un ruolo significativo.
L’opener è un cavallo da battaglia imbizzarrito, trascinante e rifinito nei dettagli. Tanta melodia e potenza, le influenze vanno ovviamente dagli Stratovarius, agli Helloween, passando per i Sonata Arctica. Il primo assolo con tanto di unisoni fa capire, inoltre, che non mancherà un approccio baroque metal. L’hit “Higher” è fin troppo catchy per non strappare un sorriso, mentre in “Follow Me” le tastiere fanno da padrone (non solo nella coda di clavicembalo). Ascoltando “Rhythm of life” viene in mente il nome Freedom Call (il loro ultimo e decimo album è appena uscito), complice un refrain corale cadenzato e zuccheroso. “Time to rise” vuole omaggiare i Maiden ma ibridandoli con delle seconde voci ammiccanti nel ritornello. Immancabile la ballad a metà disco: “Way of the light” è ballatona non troppo originale, ma permette a Eriksson di sfoggiare tutte le sue potenzialità tecniche.
L’oltranzismo al dettato power contenuto in “Shape your reality” richiama gli Angra dell’era Falaschi e mostra come i NorthTale intendono la definizione di killer song. Gli ultimi venti minuti calano un po’ d’intensità, ma senza cadute di stile. “Everyone’s a star” non convince con i suoi testi ironici, funziona meglio “Bring Down the mountain” (con velati cenni ai Symphony X nelle ritmiche), mentre “Bring Down The Mountain” vorrebbe suonare cattiva senza riuscirci (colpa del falsetto?). “Playing With Fire” non regge il confronto con il classico degli Stratovarius, “If angels are real”, per di più, inizia con un riff preso pari pari da “Forever Free”. D’apprezzare, comunque, l’alto valore tecnico degli assoli barocchi cesellati da Bill Hudson (che qui, però, esagera con alcune dissonanze). La storia del nord si chiude con “Even When”, ottimo momento poetico a suggello dell’album.
Quello che doveva essere il disco solista di Bill Hudson è diventato l’opera prima di una band che può regalare altre gioie in futuro (se eviterà troppo citazionismo derivativo), così come accaduto con i Cain’s Offering. Sicuramente è un platter che trasmette entusiasmo, peccato però per la produzione troppo compr(om)essa e alcuni filler, per il resto Welcome to Paradise merita la nostra fiducia.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)