Recensione: Welcome to the End
Se l’uomo più saggio del mondo scrivesse un vademecum dal titolo: “Come scrivere un buon disco power, edizione 2017”, non sarebbe comunque in grado di proporre molte soluzioni per un genere che sembra aver già detto molto, o quasi tutto, nella sua storia quasi trentennale. Sicuramente ci sarebbe un capitolo su come innovare accettando qualche contaminazione da altri generi. Ci sarebbe quasi certamente anche spazio per una soluzione da puristi, per i defenders più incalliti capaci di combattere disarmati e sconfiggere il potente nemico a mani nude senza ricorrere ad artifizi. In questo caso, penso che il segreto debba essere un songwriting sopra le righe, la capacità di restare ancorati alle tradizioni pur riuscendo a strappare lo “wow” stupefatto dell’ascoltatore utilizzando gli stessi elementi e stilemi già noti in maniera imprevedibile o sopraffina. Certo, prima di tutto ci vuole una cover turbo-epica, ed in questo i tedeschi Stormhammer con il loro ultimo disco “Welcome to the End” ci hanno sicuramente preso: il lavoro di Jan Yrlund con la sua sregolata innaturalezza e con quei colori sparatissimi e computerizzati ricrea la perfetta scena epica di un incantatore su una barca intento a combattere un enorme drago come nelle migliori tradizioni gdrresche. Forse state leggendo queste righe proprio perché incuriositi e catturati dall’artwork.
I cliché non finiscono certo qui. Completamente refrattari alle contaminazioni sopracitate, gli Stormhammer propongono un power super-classico, con la doppia cassa che non si ferma mai ed un riffing serrato che vira a volte verso l’heavy più tradizionale, con la voce cavernosa e ruggente di Jürgen Dachl che potrebbe ricordare in alcuni tratti i primi Blind Guardian, ma che spesso si spinge oltre confine fino ai lidi del viking con incursioni più aggressive. Il disco, missato da Mario Lochert (Serious Black, ex-Vision of Atlantis) e masterizzato da Jan Vacik (Serious Black) in quel di Monaco di Baviera, vanta una pulizia del suono davvero notevole, da grande tradizione tedesca, che ben valorizza il bel lavoro al basso di Horst Tessmann, sempre sugli scudi in una sezione ritmica veramente irrefrenabile. Bernd Intveen un po’ più contenuto e misurato alla chitarra solista ma che in brani come “Road to Heaven” si prende il suo spazio con solos puliti e precisi, a riprova delle comprovate capacità tecniche degli Stormhammer, sulle scene ormai dal 1993. Stessa lineup del disco precedente “Echoes of a Lost Paradise”, a rimarcare una prevedibile continuità nello stile.
Peccato che i lati positivi del disco siano stati già esposti sopra, perché intrapresa la strada della purezza gli Stormhammer non riescono a comporre un disco davvero incisivo. L’effetto “wow” di cui parlavo in apertura sembra proprio non arrivare mai, a fronte di un songwriting abbastanza ripetitivo che si adagia su ritornelli tutt’altro che memorabili legati in maniera parecchio artificiosa a strofe discrete, in un disco di media lunghezza che scorre quasi come un’unica traccia, anche a fronte di ripetuti ascolti, senza mai decollare. Dopo un’intro priva di senso (quasi venti secondi di *boato lontanissimo* prima di entrare nel campo di battaglia/tuono/pioggia) ci accoglie con la soltanto buona “Northman”, scelta come singolo: riffing priestiano in apertura e via di liriche poco credibili, con un refrain ripetuto mille volte che ti entra in testa anche quando non vorresti, così come in “My Dark Side” . Anche la conclusiva e corale “Black Dragon” sarà anticipata da un’intro discutibile di suoni ambientali poco distinguibili – ok, si è svegliato il drago nero, via di doppia cassa come in tutto il resto del disco. Discreta anche “The Heritage”, in cui il buon Dachl duetta con Natalie Pereira Dos Santos (ex-Envinya, The Boris Karloff Syndrome), peccato che l’ospitata si limiti ad un backing vocal poco significativa. Interessante anche “Watchman” posta a metà del disco, che di nuovo cerca di imprimersi con quel ‘watchman’ riverberato e la solita smitragliata al doppio pedale.
Alla fine dei sessantaquattro minuti del disco c’è forse stato qualche sussulto, qualche passaggio che siamo certi farà la gioia dei fan a scapocciare sotto il palco durante le esibizioni degli Stormhammer: grinta e pulizia tecnica sono certamente marchi di fabbrica di questa band, confermate nuovamente in questo full-length. Manca invece del tutto il songwriting, oggi fondamentale quanto mai per emergere nel sovraffollato mondo delle band metal che si chiamano hammerqualcosa o qualcoshammer e fanno power metal, con buona pace del grande Thor. Auguriamo ai tedeschi che “Welcome to the End” possa essere di buon auspicio per un nuovo inizio, alla ricerca di un’ispirazione mai realmente emersa in una carriera costellata da ben sei dischi ed oltre vent’anni di attività.
Luca “Montsteen” Montini