Recensione: Welcome To The Planet
Alle volte la vita riesce a presentarti con drammatica tempestività la sua intrinseca fragilità e la necessità di continuare a scorrere, priva di alternative. È la dicotomia vissuta in questo periodo dai Big Big Train a causa della prematura scomparsa di David Longdon, avvenuta per un tragico incidente lo scorso 20 novembre. Inutile dire che questo nuovo lavoro Welcome To The Planet assume connotati emozionali tremendamente diversi, che vanno oltre la semplice valutazione musicale dell’opera. Un disco già pronto, che la band ha scelto di far uscire ugualmente e che il destino ha voluto beffardamente dedicato alla celebrazione della vita.
I Big Big Train si formano nel 1990 a Bournemouth, nel sud dell’Inghilterra, ad opera di Andy Poole e Greg Spawton che condividevano l’apprezzamento per Genesis, King Crimson, Van der Graaf Generator e altre band progressive. Si unirono a loro Ian Cooper alle tastiere, Steve Hughes alla batteria e Martin Read al microfono.
I primi brani videro la luce 1991 e nel 1992 uscì il primo album demo della band, From the River to the Sea. Dopo un secondo demo (The Infant Hercules), uscì finalmente l’album di debutto Goodbye to the Age of Steam, accolto molto positivamente dalla critica, che li porta ad avere come compagni di etichetta gli ammirati IQ e li lancia definitivamente nella scena progressive. La band giunge ai giorni nostri con ben 13 album dai riscontri altalenanti (l’insuccesso del secondo lavoro interruppe la collaborazione con la loro etichetta GEP), la scelta di realizzare un proprio studio per autoprodursi e con numerosi cambi di line up. Fra questi, meritano di essere segnalati l’ingresso in formazione del noto e impegnatissimo Nick D’Virgilio (ex-Spock’s Beard) e del cantante David Longdon nel 2009 (i cui contributi daranno forma al sesto album The Underfall Yard, uno dei lavori più apprezzati dalla critica) e l’abbandono nel 2018 del membro formatore Poole.
Welcome to the Planet arriva a soli sei mesi dal precedente Common Ground, album dall’innegabile successo, preservando le radici prog distintive della band e quell’amore per la melodia da ricercarsi in tutte le facce della musica. Nella formazione troviamo il compianto David Longdon alla voce, Gregory Spawton al basso, Rikard Sjöblom (ex-Beardfish) alle chitarre, tastiere e voce; Nick D’Virgilio alla batteria e alla voce, Carly Bryant alle tastiere e alla voce, Dave Foster alle chitarre, Clare Lindley al violino e alla voce.
L’apertura è affidata alla solare e rassicurante “Made from Sunshine”, un allegro duetto tra Longdon e la violinista Clare Lindley arricchito dal solo di chitarra e dall’originalità dei fiati. “The Connection Plan” rimescola già le carte, con il violino a costruire un groove attraente e frenetico che durerà tutto il pezzo. Trascinante. Già le prime note di “Lanterna” preannunciano uno dei pezzi forti dell’album. La romantica ed eterea intro lascia presto spazio all’intera band, in un viaggio musicale polifonico all’insegna della libertà esecutiva ma anche di un equilibrio sonoro realizzato meticolosamente. “Capitoline Venus” più che un breve intermezzo è una gemma che riappacifica con il mondo. A seguire “A Room With No Ceiling”, un brano strumentale che non ti aspetti: psichedelico, sensuale e liquido nelle sonorità. Dopo cinque tracce è evidente la volontà (già espressa in Common Ground) di dare maggiore poliedricità al songwriting, arricchendo il caleidoscopio di nuovi colori, digredendo sempre più spesso, con gusto e qualità, dalle consolidate atmosfere folk.
“Proper Jack Froster” odora di vecchia Inghilterra, trascina con il suo incidere ritmato, sa poi incantare con le sue atmosfere corali e pastorali, emozionare con uno dei migliori soli di chitarra dell’album. La seguente “Bats in the Belfry” è una strumentale cervellotica ed eclettica che alza l’asticella della sofisticazione sia a livello ritmico che melodico, lasciando il compito di calmare gli animi a “Oak And Stone”, pezzo di scintillante atmosfera e raffinata eleganza. Un piano sensuale accompagnato da voci ispirate regalano 7 minuti di pura classe. Chiude in bellezza la title track, brano composto per comunicare con l’anima attraverso la voce di Carly Bryant, tra atmosfere teatrali e prog che richiamano gli anni ’70 e che, sfociando poi in un crescendo inaspettato, danno un epilogo trionfale all’album.
Welcome to the Planet è un lavoro in grado di ammaliare l’ascoltatore dalla prima all’ultima nota, privo di tensioni, dallo spirito aperto, gioioso, dove anche la malinconia ha un ruolo catartico. Una sublime sintesi tra vecchio e nuovo dei Big Big Train e prezioso lascito di David Longdon.