Recensione: What Should Not Be Unearthed
Che cosa ha reso speciale i Nile lungo gli anni della loro carriera?
Un quesito con una risposta molto facile: il death metal più brutale applicato a una tecnica cristallina, adornando il tutto con tematiche e atmosfere prettamente egizie. Se anche voi vi rispecchiate in questa breve disamina della band, concorderete ulteriormente come tale equazione viene disintegrata nell’anno 2005 con l’uscita sul mercato di quel piccolo gioiello chiamato “Annihilation Of The Wicked”. Quell’anno un greco con otto braccia e cinque piedi entrò in pianta stabile nella formazione statunitense. Colpo di scena con tremolo di rullante e le coordinate stilistiche della band sono mutate, distorte e destrutturate preferendo un impatto più brutale e meno dedito alla ricerca dell’atmosfera che aveva contraddistinto ogni singolo minuti sino a quell’anno.
Questo non è un male, ogni band necessita di modellare e plasmare ogni tanto, ma passo dopo passo quei rituali che oggi ancora tutti decantiamo sono stati persi per strada rilasciando album che, pur non risultando deludenti, lasciavano intravedere una serie di canzoni poco ispirate e a tratti concluse a metà. Se una risalita si è vista attraverso “Whose Whom The Gods Detest”, certo non si può dire dell’ultimo “At The Gates Of Sethu”, che portava in dono una tecnica sì maggiorata, applicata però a un’ispirazione pari a zero, lasciando alla fine di ogni ascolto una sensazione agrodolce. Oggi, dopo ben tre anni di fermo, cosa saranno mai riusciti a propinarci i Nostri? Il loro classico album di passaggio per timbrare il cartellino a madre Nuclear Blast Records, oppure un inaspettato capolavoro che richiami i fasti di un passato glorioso?
Come si suol dire la verità sta nel mezzo, “What Should Not Be Unearthed” è l’‘happy album’ che ogni band di spessore prima o poi butta sul mercato, quel disco che combina un po’ i desideri dei fan (ansiosi di ritrovare melodie ed atmosfere delle sponde del Nilo) portando un gradino più il là lo spettro visivo della band del South Carolina. Karl Sanders non si è fatto indietro nel definire “What Should Not Be Unearthed”, «la migliore combinazione tra passato e futuro dei Nile». In parte possiamo dargli ragione, ma non è tutto oro ciò che luccica, sfortunatamente.
Andiamo per gradi ad ogni modo, non battiamo il ferro sin che è caldo e per una volta riflettiamo con moderazione. Partiamo da due presupposti: tutto ciò che la band concepirà da qui all’eternità dei tempi non potrà mai porsi al sopra del famoso disco rosso del 2005, ed ovviamente dei suoi precedenti. Punto secondo: tutto ciò che sarà composto sarà un buonissimo insieme di tracce, eseguite alla perfezione ma che non faranno altro che fornire ai Nile la possibilità di andare in tour, ottenere un po’ di guadagni per proporsi successivamente con un ennesimo album. Non perché non se siano in grado, ma perché se ci fosse stata anche la sola remota possibilità di concepire un capolavoro in dieci anni, lo avremmo bene o male intuito questo, ahimè, così non è.
Non saltiamo subito a conclusione andando a inneggiare ogni qualsivoglia di divinità babilonese-assimra-sumera-egizia-precembriana, “What Should Not Be Unearthed” (ciò che non dovrebbe essere dissotterrato) è un buon disco, uno di quei dischi che al 90% delle band di medio livello non uscirà mai nell’intera carriera, ma se prendiamo in considerazione la storia della band in questione tutto cambio peso, dimensione e forma. Lo dice il titolo stesso: cosa non deve essere dissotterrato? Cosa non deve più tornare alla luce? Il passato ovviamente. Voler suonare come dieci anni prima o anche più risulta forzato, indecoroso nei confronti di alcuni album e sopra altra cosa anche poco sincero.
La quotidianità dei Nile nel 2015 è fatta di tracce come “In The Name Of Amun”, “Age Of Famine” o “Rape Of The Black Earth”; canzoni che per quanto valide e potenti hanno una connotazione prevalentemente chitarristica con poche atmosferiche e vagonate di sbadilate a cinque mani in faccia che ti lasciano il segno sul viso. “Call To Destruction” è la sintesi per eccellenza di quello che è il sound odierno di Sanders & Co., dove un tecnicismo raffinato e melodico si fonde sapientemente, con stacchi chirurgici, bridge epici mozzafiato e cori che ricorderai per i mesi seguenti. Questa traccia, nello specifico, uscita come primo singolo, tratta della distruzione iconoclastica da parte dell’esercito dell’ISIS, altro segno che i nostri eroi guardano oramai molto più in là che il Regno dei Faraoni, fortunatamente.
Il nuovo album non propone solo momenti di violenza pura, quell’atmosfera che si voleva dissotterrare viene sviscerata in diverse fasi compositive attraverso canzoni come la title-track, “To Walk Forth From Flames Unschated” e la superba “Evil To Cast Out Evil” (gemma suprema del disco con un assolo centrale da brividi). Il lato negativo è che le suddette atmosfere, quei richiami precisi ai Nile di un tempo vengono solamente accennati qui e là, come a stroncare la parte epica nel bel mezzo del godimento assoluto in favore di una brutalità che in quell’istante risulta essere fuori luogo e decontestualizzata sopra ogni logica. La sensazione di un ripiego, «inseriamo una porzione monumentale per ricordarci che la band ha certi tratti compositivi, ma in fin dei conti non ci appartengono più» è un concetto che salta all’occhio in maniera preponderante, parti create più per i fan che per il compiacimento della band stessa.
L’ingresso di Kollias, come si diceva in precedenza, ha fornito la possibilità alla band di esplorare quei sentieri più intolleranti che fino a poco tempo prima erano un miraggio tra le dune del deserto, è dunque insensato a oggi provare a riproporre brevi spezzoni che vadano anche tangenzialmente a richiamare perle senza tempo quali “Unas Slayer Of The Gods” o “User Maat Re”. Cosa c’è sotto questo cambio di rotta? Ovviamente a pensare male si fa peccato, ma venire a rubare a casa dei ladri si finisce scottati.
Ottima la produzione, migliorata notevolmente rispetto al passato senza mai scendere nella sensazione di plastica ‘fai-da-te’; solamente la batteria poteva essere equilibrata meglio lasciando più spazio al rullante e rendendo la doppia cassa meno preponderante rispetto agli altri strumenti, ma sono dettagli e trovare l’ago nel pagliaio non è affar nostro.
Tirando le somme, i Nile confezionano un album buono, altalenante ma buono, che in confronto alla storia della stessa band suscita più domande che gioie. Chi definisce “What Should Not Be Unearthed” un capolavoro probabilmente non ha sott’occhio l’evoluzione del gruppo, che a oggi viene battuto a mani basse da tanti altri connazionali tra i quali Hate Eternal e Cattle Decapitation, ensemble che pur impiegandoci più tempo per la stesura di un disco, riescono a lasciare molto di più il segno rispetto ad altri pezzi grossi.
Un ‘mezzo capolavoro’ che non farà altro che portare in seno al gruppo un nuovo capitolo, poteva essere un album mastodontico ma a oggi risulta, purtroppo semplicemente un buon album, che per i Nile vale quasi come una mezza delusione. A buon intenditore poche parole.
Andrea Poletti