Recensione: Wheel of Fortune

All’incirca a metà dell’anno scorso vide la luce Wheel of Fortune, secondo vagito ufficiale di una formazione nata nel 1984. E sin qui nulla di sorprendente, dal momento che la voglia di revival e di reunion sta caratterizzando la storia di questi ultimi lustri, in ambito hard rock e heavy metal e i dischi usciti a distanza di decenni non fanno più notizia, ormai.
Quello che invece cattura l’attenzione è senza dubbio la caratura della band oggetto della recensione. Non un complesso qualsiasi, uno dei tanti del passato, ma i Grand Slam (qui loro intervista), ossia l’incarnazione successiva ai Thin Lizzy operata da Phil Lynott, leader, cantante e bassista del gruppo autore di Thunder and Lightning, solo per citare il titolo di un loro lavoro epocale.
I Grand Slam presero forma nel 1984, successivamente allo scioglimento dei Lizzies, che Lynott mise in piedi reclutando il chitarrista Laurence Archer, già negli Stampede e Mark Stanway, tastierista con trascorsi sia nei Magnum che negli stessi Stampede.
Nonostante i buoni propositi e alcuni concerti di livello, i Grand Slam non approdarono a nessun contratto discografico e il 4 gennaio del 1986 Lynott morì a soli 36 anni per insufficienza epatica patita probabilmente a causa degli strascichi di un’overdose di eroina subita qualche giorno prima. Il fatto, tragico anche se non del tutto inaspettato, data la turbolenza degli ultimi anni della vita di Phil, sancì inevitabilmente anche la fine del progetto, che già l’anno prima traballava parecchio.
Nel 2019, a sorpresa, Laurence Archer rimise in piedi la band, probabilmente gasato dagli Osanna ricevuti allo Sweden Rock qualche tempo prima, attorniandosi di gente rodata quale Benjamin “Benjy” Reid alla batteria, Rocky Newton al basso – già nei Lionheart – e Mike Dyer alla voce. Venne pubblicato Hit The Ground, un album che riportò alla luce parte delle canzoni composte con Phil Lynott già eseguite in sede live e che quindi si rifaceva, in sostanza, al passato.
Wheel of Fortune, quindi, uscito sotto Silver Lining Music e che si accompagna nella sua versione in Cd digipak a un libretto di sedici pagine molto curato, con tutti i testi e per ogni canzone un disegno a tema, oltre a delle ben riuscite foto della band a corollario, si può considerare come il primo album dei Grand Slam costruito totalmente su degli inediti.
Degli storici Slam, in formazione, vi è il solo, fedelissimo Laurence Archer, anche se va rimarcato che accanto a lui vi è l’intera line-up di Hit the Ground, quindi Dyer, Newton e Reid, a garanzia di una solidità di intenti comprovata, la stessa che ha permesso alla band, nientepopodimeno, di imbarcarsi nel tour Hell, Fire and Steel dei Saxon, in qualità di supporter degli Stallions of the Highway dello Yorkshire insieme con le veterane Girlschool. Evento epocale che ha tenuto la sua unica tappa – sold out – in terra italica lo scorso 26 febbraio presso il Live Club di Trezzo sull’Adda (MI).
La vendemmia di hard rock melodico contenuta dentro la Ruota della Fortuna e lunga poco più di tre quarti d’ora prende inizio con “There Goes My Heart”, antipasto di quelli che diverranno i pezzoni che caratterizzano il secondo sigillo dei Grand Slam: “Stracrossed Lovers” è canzone che entra nella capoccia e non se ne esce più grazie a un raffinato lavoro corale e un incedere irresistibile. “Feeling Is Strong (Jo’s Song)” è il lentone à la Whitesnake che tutti si attendono, “Pirate Song” suona semplicemente sublime, per lo scriba l’highlight dell’album, fra sapori southern e polvere desertica griffata Bon Jovi/Guns N’ Roses. Da segnalare anche l’intenso finale, racchiuso dentro l’accoppiata “Afterlife”/”Wheel of Fortune”. Il rigurgito da vecchi rocker, tanto per ricordare a tutti, là fuori, che non di solo miele sparso vivono i Grand Slam, risponde al nome di “Spitfire”.
Wheel of Fortune: un disco di classe scritto e interpretato da musicisti di classe.
Stefano “Steven Rich” Ricetti