Recensione: When Life Falls Silent
Dalla Gran Bretagna arriva “When Life Falls Silent”, disco di debutto dei deathster Phobetor, i quali, obbedendo a una sorta di moda che si è sviluppata negli ultimi anni, presentano una frontwoman in luogo del solito cantante uomo per dal luogo a quella specie di antitesi fra ruvida brutalità e fascino muliebre, che tanto aggrada ai fan del metal estremo.
Come tutte le band provenienti dalla terra di Albione, è bene sottolineare ancora una volta che è intrinseca nel DNA dei suoi musicisti una solida preparazione di base, elemento necessario – ma non sufficiente – per affrontare il mondo della seconda delle Arti con la corretta dose di professionalità. Del resto, nemmeno farlo apposta, l’heavy metal è nato lì con la NWOBHM, pertanto è quasi ovvio che coloro che si cimentano con tale genere posseggano una sorta di marcia in più, rispetto agli altri, che deriva dalla loro Storia.
I Phobetor non esulano certo dai concetti cardine di questa breve disanima, potendo contare su una formazione, nata nel 2018, in grado di dare alle stampe un album che tutto può essere, fuorché un apportatore di difetti di gioventù. Esecuzione, produzione e quant’altro di tecnico sono esenti da errori o superficialità, tant’è che “When Life Falls Silent” è un lavoro che identifica con precisione lo stile del gruppo londinese; nel senso che è stato sufficiente pubblicare soltanto un EP (“Burning Memories”, 2019), per avere ben chiaro in testa ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare per disegnare il proprio marchio di fabbrica.
Rispondendo agli attuali requisiti di modernità, peraltro, la voce femminile non si affianca a nulla che sia melodico. Sono state valicate, difatti, le barriere che fungevano da limite per il melodic death metal, ove, forse, per natura, sembrava più naturale che le ugole delle donne si trovassero più a loro agio. Debora Conserva, al contrario, ha una gola scabra da far paura. Una prestazione maiuscola, si potrebbe dire anche mascolina ma solo per indicare un atteggiamento, giacché si percepisce facilmente che non ci sia alcun uomo, dietro l’acido growling che segue le linee vocali delle varie canzoni. Il che rappresenta senz’altro il punto forte dei Nostri, capaci di realizzare brani ostici, dissonanti, duri, cattivi, imbevuti però di qualcosa che rimanda a più delicati (sic!) pensieri. Conserva, inoltre, è in grado di variare a suo piacimento il suo stile canoro – anche clean vocals – a seconda dei momenti, per seguire le complesse frastagliature della musica. Una cantante assai interessante, dunque, da annotare sul proprio taccuino mentale per seguirla in quello che, senz’altro, proporrà in futuro.
Anche lo stile dei Phobetor è di buona fattura, come più su si evidenziava. Ben formato, dettagliato in ogni aspetto, si discosta abbastanza facilmente da produzioni similari pur non inventando niente di nuovo. Blast-beats, riff granitici, basso che funge quasi da seconda chitarra, potenza esorbitante, aritmie e discordanze sono ingredienti che non mancano, passando di pietanza in pietanza nel tragitto da ‘Merging Infinity’ a ‘When Life Falls Silent’.
Come spesso accade, la composizione è il segmento del processo realizzativo più impegnativo, dato che è lì che si vede chi ha talento e chi no. Il quartetto inglese, per questa caratterista, è ubicato a metà; nel senso che i brani sono elaborati con correttezza formale, quasi fossero il risultato di uno studio a tavolino. Senza improvvisazioni ma, anche, privi di quei dettagli che li rendano unici, riconoscibili, interessanti, accattivanti. Rilevato che il songwriting raggiunge comunque la sufficienza per quanto sopra espresso, manca il famigerato quid in più, il che spesso s’identifica con l’anticamera della noia.
Un’Opera Prima eseguita dai Phobetor in maniera seria e irreprensibile, quindi, che non decolla per via di una serie di tracce un po’ anonime e difficili da memorizzare per poterli gustare sino in fondo.
Daniele “dani66” D’Adamo