Recensione: Where Gods Come to Die
Dalle ceneri dei deathster tedeschi Lay Down Rotten – scioltisi dopo sedici lunghi anni di attività, nel gennaio 2015 prende forma una nuova, scellerata creatura, battezzata nel sangue con il nome di Demonbreed.
Ci pensano il vocalist Jost Kleinert e il batterista Timo “Borgir” Claas a cucire i rapporti fra i due altri ex–Lay Down Rotten – il chitarrista/cantante Daniel “Mett-God” Jakobi e il bassista Johannes Pitz – al nuovo arrivato, Ferli Thielmann (chitarra, voce). Per un ensemble tutto d’un pezzo, dedito a un old school death metal i cui dettami, talmente sono rigorosi, si trovano facilmente nelle voci dell’enciclopedia del genere. Volenti o nolenti, i Demonbreed, per come sono costituiti, pur essendo rappresentativi di una band novella, un punto di partenza, bene o male, ce l’hanno: “Deathspell Catharsis”, canto del cigno degli Lay Down Rotten, uscito ormai due anni fa. Un punto di partenza che chiude un’epoca di death metal relativamente moderno, allineato alle nuove tendenze ma che evidentemente aveva compiuto il suo tempo. Giacché, al contrario, i superstiti si sono buttati anima e corpo nella vecchia scuola.
E si sono buttati a capofitto, nella stesura del debut-album “Where Gods Come to Die”, come dimostra l’orrorifico incipit ambient che apre il lavoro, la title-track ‘Where Gods Come to Die’, ma, soprattutto, la bestiale potenza devastante della susseguente ‘Vultures in the Blood Red Sky’ che, dopo due bombe telluriche del basso di Pitz a valori di Hz prossimi allo zero, si dipana con il classico ritmo strascicato tipico dell’old school, anche se in occasione dell’anthemico refrain i BPM salgono sul gradino dei blast-beats.
Seppure lo stile dei Demonbreed, benché assolutamente adulto e perfettamente formato in ogni dettaglio, abbia poco o niente che li differenzi dalle miriadi di formazioni che praticano il medesimo sottogenere death, la voglia – perlomeno – di differenziare le song grazie a un oculato studio compositivo c’è, e si sente. Tanto è vero che a un certo punto spunta il rifacimento di ‘Blood Colored’ dei progster Edge of Sanity, tratto da “Purgatory Afterglow” (1994), brano che nulla ha a che vedere con il cupo, tenebroso e oscuro death metal dei Nostri.
I Demonbreed tendono a mantenere le battute dei pezzi entro il mid-tempo a doppia cassa, fondamentalmente. Ma, come spesso accade in casi analoghi, è quando alzano la velocità che, contemporaneamente, si eleva la qualità del platter e, probabilmente, l’interesse di chi ascolta, come per esempio nella potente ‘Folded Hands’. Trascinata da un main-riff da levare la pelle e da un quattro quarti accelerato da spezza-membra in avanzato stato di decoposizione.
Dopo i lunghi trascorsi con i Lay Down Rotten, Kleinert & soci avevano bisogno di un po’ di tempo per rivedere il loro modus operandi. Per cui, fondamentalmente, “Where Gods Come to Die”, si può apprezzare come discreta Opera Prima, di transizione verso l’occupazione di lidi… pardon sarcofaghi di maggiore visibilità e importanza.
Daniele D’Adamo