Recensione: Where Greater Men Have Fallen

Di Tiziano Marasco - 23 Dicembre 2014 - 13:12
Where Greater Men Have Fallen
Band: Primordial
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2014
Nazione:
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79

Prima ancora di avventurarsi nella disamina d’un loro disco, ai Primordial va riconosciuto il gran pregio di aver sempre saputo coniugare la loro proposta in varie forme, senza mai adagiarsi su formule vincenti e già sperimentate. Questo è stato peraltro uno degli elementi chiave che da sempre ha accompagnato l’attesa delle loro nuove uscite discografiche. Dove andranno a battere questa volta? Di quali influenze si vestirà la loro proposta?

È anche un fatto che proprio in virtù di quanto detto la proposta degli irlandesi si attesta oramai su coordinate profondamente diverse dal black degli esordi e prediligendo composizioni più lunghe e dalle ritmiche decisamente meno serrate, ma non per questo meno drammatiche, come l’ottimo Redemption at the Puritan’s Hand aveva confermato tre anni orsono. Si parla di black, ma è difficile comunque ritenere i Primordial una band black, oramai.

Questo 2014 invece è l’anno di Where greater Men have fallen, un lavoro che si presenta in linea con il suo predecessore ma anche permeato da un’anima diversa. Questo disco infatti, per delle ragioni sfuggenti e non spiegabili, presenta radici saldamente ancorate a certa tradizione neofolk apocalittico degli anni ottanta. Forse più del sound lo inducono a credere le tematiche delle canzoni, incentrate spesso su argomenti biblico apocalittica come la title track o la seconda  Babel’s Tower.

In particolare un esteso elogio va tributato a Nethmeanga, che qui più che mai pare un indemoniato predicatore che vaga tra menhir e lande desolate sferzate dalla pioggia. Oramai il suo stile è maturato, divenendo del tutto personale, roco, non urlato ne cantato, e pur tuttavia estremamente comprensibile (elemento onorevole se si tiene conto che scozzesi e irlandesi han fama di essere incomprensibili). Tramite Nemtheanga la desolazione nella musica dei Primordial raggiunge tutt’altra caratura, ottiene una dimensione nichilista che poche band riescono a raggiungere, ben supportata da chitarre robuste, scarne e da ritmiche lente eppur battenti come la piogge atlantiche. 

Il risultato è un disco che si trascina pesante e grigio, che necessita ripetuti ascolti per lasciarsi scoprire. I primi 3 brani, anche grazie alla peculiarità del cantato e dell’enorme pathos che si sprigiona da queste note, si stampano in testa fin da subito. Dall’altro lato canzoni come Born To Night, dotata di un’ottima struttura compositiva, ed 8 forse la più varia a livello sonoro, si lasciano apprezzare solo dopo che il cd ha ruotato sul piatto diverse volte, coll’effetto di lasciare un po’ da parte The Seed Of Tyrants e Ghosts Of The Charnel House, due brani che effettivamente risultano un po’ troppo grigi, per non dire scolastici. Ma si tratta di peccati venali cui è facile sopravvivere.  

A fronte delle ultime uscite di gruppi come Winterfylleth e Fen, album buoni ma che pure lasciano alcuni dubbi non attestandosi sui livelli dei predecessori, Where greater Men have fallen conferma la grandezza dei Primordial, ponendoli in una posizione sempre più di spicco nella scena post black delle isole britanniche.

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