Recensione: Where Memories Combine
Una piacevole sorpresa. Ecco forse il modo più efficace di definire l’opera di questo duo della Louisiana, non da molto giunto al debutto ufficiale. Questo Where Memories Combine è un lavoro per svariati versi insolito, sperimentale, originale: i suoi interpreti lo chiamano Mercurial Metal, noi lo definiremo prog semplicemente per avvalerci di una terminologia di comodo con cui collocare i Cea Serin in un universo che ha sempre fatto dell’innovazione e della ricerca di sonorità non convenzionali due dei propri maggiori punti di forza. Ma qui i grandi nomi del genere sono tenuti a debita distanza da un volume di influenze che, più che riferirsi a gruppi specifici, pesca a piene mani da universi musicali distanti anche anni luce tra loro, per ricostruire in un unico monumento la molteplicità di suoni assimilati. Un approccio che per certi versi può ricordare forse quello dei primi Pain of Salvation, ma che tutto può dirsi fuorché uno sbiadito clone della band scandinava.
Un primo sguardo d’insieme consente di cogliere subito la complessità del sound e, in particolare, dei pattern ritmici: da percorsi serrati e irregolari a frenetiche cadenze di velata matrice etnico-folcloristica, attraverso brusche accelerazioni in doppia cassa sovente spezzate da improvvisi rallentamenti, quando non da lunghi stacchi acustici. Proprio questi ultimi si propongono come uno degli ingredienti vincenti della ricetta del duo statunitense, integrandosi alla perfezione con i riff e gli enfatici assoli delle chitarre elettriche. Le corde pizzicate da Keith Barman riescono con poche note a evocare atmosfere ora oniriche e allucinate, ora spigolose e taglienti, ora sofferte e di elevatissima intensità emotiva, riprodotte con tanta fluente naturalezza da scaraventare nell’oblio ogni osservazione sulla non indifferente complessità tecnica di molti passaggi. Brani come Meridian’s Tear (eccezionale il solo di basso) e Scripted Suffering: Within and Without – entrambi parte dell’unicum formato dalle prime quattro tracce, corrispondente al demo The Surface of All Things – si pongono come paradigmi ideali dell’approccio intimista e riflessivo della band, forti di strutture imprevedibili eppure scorrevoli, condotte per buona parte da linee vocali drammatiche e graffianti, collocabili tra i più rilevanti elementi differenziali rispetto agli standard del genere. Il timbro imbastardito di J. Lamm, pregno d’un fascino magnetico e irresistibile, percorre con autorità binari tutt’altro che convenzionali, carichi d’angoscia e crepuscolari, impavido nell’avvicinarsi a tratti a uno screaming-growling ibrido, quanto disinvolto nel compattarsi su coordinate più aperte ed eufoniche.
La opener Embracing the Absence, uno dei momenti più alti dell’album, mostra senza dubbio i maggiori punti di forza del combo statunitense: un riff subito trascinante e carico di pathos, continui cambi di tempo accompagnati da suggestive trasformazioni melodiche, vocals a un tempo acide e calde, col valido supporto di larghi tappeti di tastiere intelligenti e magistralmente dosate. Sono proprio queste ultime a donare ai brani quel tocco di imprevedibilità in più, tra sonorità vagamente jazzistiche, svelte puntate nell’elettronica e divagazioni classiche. Discrete e sornione sanno seguire a lungo nell’ombra i riff di chitarra, in attesa dell’istante in cui balzare repentinamente allo scoperto e prendere per mano le melodie, fino alla successiva esplosione sonora. Un ulteriore tocco di classe è dato da un fattore che più d’una volta mi è toccato in passato archiviare come negativo: sto parlando gli occasionali spezzoni di parlato che qua e là fanno capolino nei momenti di particolare enfasi. Beninteso, non immaginatevi lunghi e noiosi monologhi che appesantiscano i brani senza nulla aggiungere dal punto di vista della composizione; al contrario ogni battuta è soppesata con sapiente discrezione e si inserisce, breve e puntuale, proprio là dove dovrebbe stare, tanto che a posteriori parrebbe strano non ritrovarla.
Tra una cavalcata furiosa e una parentesi sinfonica non va tralasciata una lettura ai testi, elemento di primaria importanza nella musica dei Cea Serin. In linea con il mood dell’album, le liriche si propongono come spunti di riflessione intimi e personali, irrinunciabili complementi della dimensione sonora. Anche in virtù di accorgimenti come questo, tutto l’album appare in fin dei conti un’unica grande costruzione, tanto varia al suo interno quanto omogenea e coerente nell’insieme, così da rendere riconoscibile un sound già definito e tutt’altro che derivativo, chiaro indice di una personalità e di un’audacia sorprendenti in una band al debutto.
A conti fatti, possiamo dire che l’appellativo “Mercurial Metal” si rivela ben più di un misero guscio dall’aspetto suggestivo ma privo di contenuto. Senza dubbio quello che abbiamo tra le mani è un prodotto da ascoltare con attenzione, da conoscere con pazienza nel dettaglio, lasciandosi avvolgere dalle sue atmosfere dopo essersi concessi il tempo e il contesto migliore per poterle assaporare con la dovuta calma. L’elevata lunghezza delle singole tracce e la loro ricercata laboriosità potrebbe infatti scoraggiare coloro che si pongono alla ricerca di un prodotto più immediato e facilmente fruibile; apertura a sonorità fuori dagli standard e disponibilità a concedersi interamente alla musica sono dunque requisiti indispensabili per capire e successivamente apprezzare il frutto del sudore di questo talentuoso duo. Siamo qui di fronte al potenziale inizio di una brillante carriera per un gruppo che dimostra di possedere un bagaglio tecnico invidiabile, messo al servizio di una dose importante di idee davvero fresche e interessanti. Perciò tenete d’occhio questi ragazzi: sono certo che ne sentiremo parlare ancora.
Tracklist:
1. A Fracture in Forever (1:57)
2. Embracing the Absence (7:32)
3. Meridian’s Tear (10:20)
4. The End of Silence (9:32)
5. Scripted Suffering: Within and Without (8:23)
6. Into the Vivid Cherishing (12:33)
7. Sudden Faith Part I (8:16)
8. Sudden Faith Part II (4:37)
9. An Evening at the Suicide Café (3:54)