Recensione: Where the Gloom Becomes Sound
Le strade di Jonathan Hultén e Adam Zaars si incrociano 20 anni fa nella pittoresca cittadina svedese di Arvika quando i due, allora tredicenni, danno vita agli Hazard. La formazione, dedita a un Thrash Metal vecchia maniera in cui riecheggiano influenze dei primi Slayer e dei Mercyful Fate, rilascia un paio di demo tra il 2001 e il 2004. Nel 2003 Johannes Andersson si unisce al combo nel ruolo di bassista. L’anno seguente, con la dipartita del vocalist Olof Wikstrand (che di lì a poco formerà gli Enforcer), il passaggio di Andersson dietro al microfono e il cambio di moniker, si consolida il nucleo dei Tribulation che conosciamo oggi.
Nell’ l’EP “Putrid Rebirth” (2006) e nel primo full lenght “The Horror” (2009) il gruppo si fa interprete di un Death/Thrash old school dalle nuance oscure, che guarda a Morbid Angel, Mayhem e Slayer, con suggestioni mutuate dal cinema horror, fonte di ispirazione che diverrà una costante sia a livello compositivo che estetico. Nel 2013 è la volta di “The Formulas of Death”, un disco di oltre 75 minuti di durata che, pur rimanendo furente, sfoggia una massiccia dose di sperimentazioni atmosferiche e progressive.
La svolta arriva nel 2015 con “The Children of the Night”, che segna l’inizio di un nuovo corso stilistico: il Death/ Thrash delle origini, seppur ancora rintracciabile, è sensibilmente ridimensionato a favore di soluzioni che abbracciano Gothic Metal, Progressive Rock, Heavy Metal e Classic Rock. Il tutto è ancora ammantato da quell’aura orrorifica a cui i Nostri ci hanno abituato sin dagli esordi, veicolata ora mediante rinnovate formule espressive. “Down Below” del 2018 procede nella medesima direzione, così come “Where the Gloom Becomes Sound”, ultimo lavoro in studio uscito, come i suoi due immediati predecessori, su Century Media Records.
L’album passa con agilità dal Metal al Rock, alternando con fluidità e maestria riff taglienti e trame sofisticate e sfaccettate senza disdegnare, di quando in quando, qualche ritornello catchy. “Where the Gloom Becomes Sound” si compone di una prima parte prevalentemente Gothic Rock e di una seconda in cui le sonorità Metal emergono più chiaramente. Dopo un’introduzione di pianoforte, la opener “In Requiem” prosegue in un pezzo oscuro e dal passo lento, una delle cose più vicine al Doom che la band abbia mai proposto, con assoli di chitarra e i ritornelli di immediata presa. Con le più veloci “Hour of the Wolf” e “Leviathans” si vira decisamente verso un Gothic arrangiato su strutture fondamentalmente Rock, non fosse per lo stile vocale, che sebbene non sia più un vero e proprio growl, si mantiene rauco e graffiante. “Dirge of a Dying Soul” è un Gothic/Doom sviluppato su un riffing maestoso scandito lentamente e melodie di pianoforte che conferiscono al brano un mood di autentica decadenza.
A “Lethe”, un passaggio di pianoforte melodioso e sinistro al tempo stesso, è affidata la funzione di traghettare l’LP verso la sua seconda parte, in cui figurano prevalentemente brani di impatto più immediato. “Daughter of the Djin”, “Elementals” e “Funeral Pyre” sono infatti pezzi veloci, che si muovono tra Heavy Metal classico, Gothic Metal e sporadiche accelerazioni Death/Thrash. Anche in questa seconda parte trovano comunque spazio episodi atmosferici come “Inanna”, basata su un riff ossessivamente ripetuto che le conferisce un sapore cerimoniale, e la conclusiva “The Wilderness”, una cavalcata dai toni quasi epici, impreziosita da grandiosi assoli di chitarra.
Jamie Elton, affiancato dalla band nel lavoro di produzione, ha optato per un suono intenso e pulito. Per l’immagine di copertina, invece, la scelta è ricaduta su uno scatto che ritrae una statua di fine Ottocento di Fernand Khnopff, uno degli interpreti più visionari del Simbolismo europeo, che si confà perfettamente al carattere decadente della proposta.
Se a livello compositivo i dischi precedenti erano frutto del contributo fifty-fifty dei due chitarristi, “Where the Gloom Becomes Sound” è stato scritto quasi interamente dal solo Jonathan Hultén. Circostanza, questa, che potrebbe proiettare non poche ombre sul futuro degli svedesi dal momento che il chitarrista, mosso dal desiderio di sperimentare nuove direzioni artistiche, ha annunciato la propria (amichevole) dipartita all’indomani della pubblicazione del disco.
Il vuoto lasciato da Hultén è stato colmato da Joseph Toll, chitarrista da sempre vicino al gruppo con passati negli Enforcer e negli Hazard. È lo stesso Adam Zaars ad affermare che la fuoriuscita di Jonathan ha insinuato in lui seri dubbi circa l’opportunità di proseguire con la band, ma che l’ingresso di Joseph, suo amico sin dall’adolescenza, ha portato una ventata di entusiasmo e aperto nuove prospettive. Vedremo ciò che ha in serbo il futuro… Nel frattempo non possiamo che augurare il meglio a Jonathan Hultén e complimentarci con i Tribulation per questi quasi 50 minuti di musica, avvolgenti al punto da scorrere in un batter d’occhio.