Recensione: Where the Light Ends
Una volta messi da parte nel 2019 i soliti formati commerciali di “Where the Light Ends”, nuovo disco dei Keitzer, è arrivata, come sempre, la versione in LP. Che, per ciò che concerne l’aspetto meramente musica, nulla aggiunge e nulla toglie a quanto già prodotto in precedenza.
I Keitzer sono tedeschi, sono nati nel 1999, hanno nel carniere sette full-length – compreso questo – e, perlomeno in patria, sono considerati un ensemble di ottimo livello tecnico/artistico. Tuttavia, questo breve riassunto della loro carriera lascia trasparire che l’ambito di azione desiderato non sia certamente contenuto nelle terre teutoniche ma, anzi, tenda ad ampliarsi alla dimensione internazionale. Da questo punto di vista il disco, a un primo ascolto, sembra suffragare quest’ultima ipotesi, poiché appare del tutto chiaro che l’approccio alla questione sia assolutamente professionale.
Ciò lo si percepisce dal sound: moderno, pulito, perfettamente formato in ogni sua forma, irreprensibile nel restituire sul supporto finale ogni nota, ogni accordo, nella maniera il più possibile accessibile, perlomeno dal punto di vista tecnico. Tecnica che si ritrova anche nei cinque membri, anch’essi impeccabili nell’eseguire senza pecche il compito loro assegnato. Niente di eccezionale, sia ben chiaro, ma comunque più che sufficiente per affrontare con tranquillità e decisione i marosi del mercato internazionale.
Come stile, i Nostri praticano un veemente death metal dalla foggia piuttosto classica, spruzzato di essenze crust e grindcore. Sopratutto il secondo pare inserirsi con più decisione nelle menti del combo mitteleuropeo, forse per un istinto primordiale, naturale; forse perché esso è stato uno degli ingredienti di base quando ventun anni fa la band ha iniziato il suo cammino. Fatto sta che “Where the Light Ends” è un platter brutale, duro, violento. Che diventa devastante quando Tim Terhechte alza all’inverosimile i BPM del suo ritmo, sfondando abbondantemente la barriera dei blast-beast (‘Tyrants’). Richiamando la sensazione più su espressa, la prestazione vocale Christian Chaco conferma la tendenza alla tipologia *-core, giacché utilizza le harsh vocals come elemento principale delle sue linee canore. Ugola acida, scabra, rovente, che si tiene a debita distanza da altri modi di approcciare il death metal, quali growling – soprattutto – e inhale, per esempio.
I Keitzer beneficiano inoltre di una rilevante coesione fra i membri, sintomo di esperienza e di sudore in sala prove, con ciò donando al suono del platter una potenza esorbitante, a tratti annichilente (‘Invictus’). L’energia fuoriesce a fiotti, dalle mani del quintetto, travolgendo tutto e tutti, come se si potesse identificare in un’armata di carri armati in piena azione. Non è la forza dei singoli, quindi, a dare come risultato finale una spinta enorme, ma l’unione di squadra. A ciò occorre dare il giusto merito poiché non sempre accade così. Non sempre si riesce a erogare una simile quantità di watt da scaricare bene a terra per correre il più velocemente possibile.
Più complicato l’approccio alle canzoni, invece. Benché non ci sia nemmeno un mmq di apertura, di buco, fra una di esse e le altre, il songwriting è il punto debole del gruppo. Benché non ci siano errori e incongruenze, nel modo di scrivere, e i brani scorrano via senza intoppi ma anche senza sussulti, non risulta facile imparare a riconoscere le varie tracce. Si tratta di un po’ di uniformità ma che, però, induce a rendere meno godibile “Where the Light Ends” nel suo complesso. Un principio di noia incipiente, insomma.
I Keitzer hanno difatti imperniato “Where the Light Ends” quasi esclusivamente sull’aspetto tecnico/esecutivo, volto a sputare quanta più potenza possibile, lasciando da parte, perlomeno parzialmente, la visione artistica tesa a regalare a chi ascolta qualcosa di memorabile.
C’è di peggio.
Daniele “dani66” D’Adamo