Recensione: Where Will you Go
Le germaniche sorelle cattive del rock Bad Sister (per i più datati ex Bogart Joint) sono tornate in pista firmando con l’etichetta Pride & Joy Music.
Ma calmate i bollenti spiriti, perchè per la verità di sorella ce n’è solo una e in carica dal 2015 – dopo essersi passata il testimone con Sandra Hoffman, divenendo ufficialmente la quarta cantante in seno alla band – gli altri sono tutti fratelli… un po’ come per un altro gruppo che per assonanza mi viene in mente: “Scissor Sisters”.
Andrea Löhndorf (cantante) avrà sicuramente un’ appearance molto rock, con quegli occhiali tondi a specchio e quel cappotto leopardato che indossa nell’ official video di “Lose or Win”, ma nonostante la band asserisca di aver rilasciato sul mercato un ottimo prodotto, manca ancora tanto per riguadagnarsi lo sfavillante podio di “Heartbraker” (1989), riconosciuto mondialmente soprattutto grazie alla hit “Catriona”.
Un seguito piuttosto sotto tono per una band che ha supportato Ian Gillan (Deep Purple) e Mitch Ryder, ma che soprattutto non faceva “sentire” un album da 14 anni – l’ultimo, nel 2009 “Because Rust Never Sleeps” con Suzie Lohmar alla voce – che già all’ epoca non aveva riscontrato un grande successo di critica, risultando obsoleto.
Insomma, c’è ancora molto da correre (e da sudare) per riuscire a rientrare nelle prime posizioni.
“Where will you go” è un album che sembra fin dal titolo mancare di una sua destinazione definitiva, soprattutto nel mezzo dell’ incredibile quantità di uscite odierna. Nonostante gli hook (per la verità piuttosto scontati) volti ad ingraziarsi il pubblico e le melodie spesso fin troppo conformi allo standard immatricolato 1980.
Insomma le Bad Sister propongono un BUON melodic rock senza eccezionali sbalordimenti o suggestivi cambi d’abito; ma che si protrae per quasi un’ ora – nello specifico si parla di ben 58 min e 22 secondi con un totale di 13 brani – facendo risultare l’ascolto continuativo una sfida, nell’ epoca del one-listening-stand or casual-listening (insomma traducetelo come preferite) a cui ci siamo abituati con Spotify.
Tutto sommato l’album si fa ascoltare, ma ci sono alcune carenze da evidenziare.
In primo luogo Andrea lavora davvero bene sul registro basso ma non su quello alto, riuscendo brillantemente in ballad come “Could it be love”, ma risultando, in altre tracce in cui i bpm salgono, fiacca e trascinata, soprattutto se paragonata alla vivacità musicale degli altri componenti della band.
Un esempio: “Feels Like Love” sarebbe un’ ottima traccia resa effervescente della ritmica di Kai-Ove-Kessler alla batteria (che per altro è produttore dell’ album) e dalle chitarre killer di Sven Lange, che unite alla tastiera impazzita di Andreas Läu – tale da sembrare posseduta (un po’ come avviene per la lumaca zombie) dal leucochloridium del ritmo – sortirebbe l’effetto di far muovere in preda a convulsi spasmi. Ma poi si avvolge su sé stessa come un palloncino sgonfio a livello di vocalizzi.
In secondo luogo non basta semplicemente qualche schitarrata passionale e abbandonata al momento come in “Couldn’t do it right” o qualche linea di basso ben radicata (Andreas Läu) e studiata al millimetro come in “Bright Lights” o ancora un buon mixing (Timo Höcke) per risollevarsi da una sonora sufficienza.
Le aspettative sono più alte se si vuole abbattere i confini nazionali e raggiungere una platea d’ascolto più ampia…
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