Recensione: White Sister (Reissue)

Di Eric Nicodemo - 16 Agosto 2014 - 15:45
White Sister (Reissue)
Band: White Sister
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2013
Nazione:
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87

 

A volte capita di salire all’onore delle cronache perché indicati come fantomatici successori di un complesso celebre o comunque prestigioso. Ed è quello che è successo agli White Sister (monicker tratto dalla canzone omonima dei Toto), i quali, patrocinati da Gregg Giuffria, vennero fatti passare come eredi spirituali degli Angel (di cui Gregg era il tastierista e uno dei principali compositori).
Una manovra operata più per ragioni di marketing che per assonanze musicali vere e proprie, le quali si riferivano soprattutto alla partecipazione come producer, arrangiatore e special guest di Gregg, che, incontrati i Nostri in una stazione di benzina, decise di metterli sotto contratto dopo averne apprezzato un demo (EP, a dire il vero, ancora piuttosto acerbo).     

Certo, degli Angel, gli White Sister possedevano una certa regalità nelle tastiere ma il sound rimase un manifesto delle potenzialità derivanti dall’unione di hard rock, melodia e, in alcuni frangenti, della ruvidezza dell’heavy. Un’alchimia che darà vita a termini ancora ambigui, sfuggenti e mai del tutto chiariti quali sono il pomp rock ed il class metal (che trovò la sua forma definitiva nel leggendario “Under Lock And Key” dei Dokken).
Di sicuro gli White al tempo non prestavano attenzione a generi e sottogeneri (volendo solo proporre la propria musica) e, al di là delle prime positive recensioni, l’aria che si respira in questo lavoro (datato 1984) è la stessa che permea il debutto di una giovane, promettente band: l’anima del disco racchiude tutto l’entusiasmo, tutta la spontaneità e la spinta compositiva di un esordiente (senza tradire alcuni stilemi cari al rock anni ottanta).

Caratteristiche che non tardano a farsi sentire nell’energia sprigionata da “Don’t Say That You’re Mine, che stempera la propria rabbia adolescenziale nel midtempo del ritornello, dove i backings rispondono con delicatezza alla voce spontanea e potente di Dennis Churchill. L’arpeggio seguente è solo un inganno perché la chitarra vi renderà succubi di un assolo dalle tonalità slanciate, splendenti come un torre d’avorio.

Gli White Sister sono esordienti pronti a dimostrare il proprio valore e il loro cuore batte impaziente nella chitarra nervosa di “Straight From The Heart”, connubio perfetto tra liriche e ritmica accanita: quando il post-chorus disegna linee avvolgenti è tardi per accorgersi che l’inno del titolo esplode, affondando i propri melodiosi uncini, inguainati dalle note vellutate di una tastiera. Il trasporto della musica sfocia incontrollato, l’adrenalina divampa nelle scale neoclassiche che ricadono come una cascata e risalgano nel grido di un vibrato struggente, consegnandoci un brano al top del songwriting.

Il protagonista dei testi è sempre la sfera più emozionale dell’essere umano, catturata nel riff graffiante di “Love Don’t Make It Right”, il cui portavoce è Garri Brandon, che ribadisce con tagliente sicurezza quella verità assoluta trasposta nel titolo della canzone. Nel coro si ricrea quella formula irresistibile detta class metal, partorita da un hard rock lussuoso e raffinato, ed irrobustita dalla potenza dell’heavy anni ottanta.

Gli White Sister non rinnegano il rock epico e il post-chorus eroico di “Breaking’ All The Rules” è il loro manifesto, dove i cambi di tempo disegnano un brano dinamico: il ritornello rallenta la foga del rifferema mentre il bridge è una trama intessuta dall’affiatato ensemble di tastiera e chitarra. Un brano dal refrain senza fronzoli ma la tentazione di cedere ad un ritornello così seminale non si può rifiutare, né negare.

D’altronde, le emozioni e le pulsioni sono l’essenza stessa di cui è fatta la musica e i Nostri ne privilegiano il lato più epidermico: un arpeggio venato da tristezza è solo un’illusione squarciata dai vibrati di “Can’t Say No”. Seppure altezzosa la definizione di Orchestrated Metal, sarà più accettabile quando i backings del refrain si aprono disperati e soavi, traghettandoci in una desolazione dove la sofferenza del rifiuto è la nostra condanna.

Tuttavia la gioventù è carica di speranze e “Promises” raccoglie i sogni di ogni giovane band, alimentati da scintillanti tastiere e sontuosi cori. In questa atmosfera di attesa e grandi aspettative per il futuro, la magia di una notte nella Grande Mela si materializza davanti ai nostri occhi solo ascoltando il canto accorato degli White Sister, dove siamo suggestionati dal caldo lambire delle note, medium delle nostre emozioni.

Dopo il bagliore di speranza di “Promises”, il tormento di un’esistenza irrequieta riecheggia nelle vibrazioni sofferenti di “Walk Away”. Il nostro cammino è costruito su un ritornello che si divide in una prima parte cadenzata, dove la melodia fluisce attraverso il coro e i briosi tocchi delle keyboards in sottofondo. Nella seconda parte, il ritmo è più veloce (come nel riff portante della canzone) e le voci ascendono con passione e con quel pizzico di serena tristezza, per suggestionarci in un’atmosfera palpitante di ricordi. Cosa dire poi del vibrato che incendia le nostre sensazioni al centro del guitar solo? Un trucco forse di mestiere ma sempre fresco e frizzante nel suo accorato mood.

L’impulsività e il desiderio non si placano e perseguitano il riff d’apertura di “One More Night. L’irruenza dell’inizio improvvisamente scompare e Garri Brandon declama il proprio desiderio mentre i synts riaffiorano come ricordi sopiti. Il main vox rimane la fiaccola che ci guida in questa notte: il cantante si eleva sulle ali delle tastiere e il coro marziale chiede che quell’istante di passione duri per sempre.

Quando la notte volge al termine, rimane solo la malinconia di “Just For You”. Nell’alba di un nuovo giorno un arpeggio ci insegue e gli intarsi della tastiera, tristi e regali, si intrecciano e si sposano con le liriche, raccogliendo tutta la nostra pena, i nostri sacrifici, fatti al solo scopo di essere ricambiati, in un mondo privo di affetti.

Dimenticato qualcosa? Sì, per la precisione la track al centro dell’album, la celebre “Whips”. Celebre perché tale canzone è un originale degli Angel che venne ceduto da Gregg agli White Sister dopo averli incontrati. Il brano si presenta fin da subito per quello che è: una song dipinta nelle calde tinte seventies, irrobustite dai Nostri per donare uno slancio duro e “più moderno”, preservandone l’indole da classico rock’n’roll. Ed è proprio questo il problema di “Whips”: la canzone suona un po’ troppo anni settanta, risultando decontestualizzata e molto meno personale rispetto al resto del repertorio, in modo da creare quasi uno stacco, una spaccatura al centro del disco, il quale non avrebbe risentito della sua assenza.
Forse la fama della song risiedeva più nei suoi nobili natali e nella natura particolare del testo che nel songwriting dello stesso brano, dove gli Angel ribattevano le critiche mosse a Punky Meadows da Frank Zappa, che ridicolizzò l’immagine glam di Meadows nella canzone Punky Whips (monicker del complesso solista di Punky). Tralasciando la storia dietro questo brano, “Whips” rimane un ottimo pezzo, che soddisferà i più cocciuti settantiani, pur lasciando qualche dubbio e il desiderio di una sostituzione con materiale in linea con il resto del platter…    

Terminato l’ascolto, concluderete che “White Sister” rappresenta un eccellente esempio di rock melodico, potente e sognante, dotato di un proprio stile e di una verve lontana dal solito hard’n’roll tangenziale, clonato dagli anni settanta e importato nel decennio successivo. Se il sound degli White ha perso in minima parte un tocco di personalità, questo è da ricondurre all’enorme aumento di epigoni durante gli anni e non è da imputare alla band, il cui sound è ancora abile nel trasmettere le giuste emozioni.

D’altronde, come affermò lo stesso Gregg Giuffria (che ammise di non aver seguito la scrittura e l’elaborazione dei pezzi), il segreto per evitare un lavoro di copiatura è forse quello di chiudersi in isolamento compositivo, liberi dal “giogo” di influenze esterne. Un consiglio seguito involontariamente dai Nostri e che si riflette sull’opera: non a caso, come abbiamo già detto, la tanto pubblicizzata “Whips” è probabilmente il brano meno entusiasmante e più canonico dell’album, seppur valido grazie ad una brillante performance della Sorella Bianca.
Fatto che dispone a favore degli White Sister, sdoganati una volte per tutte dallo scomodo ruolo di comprimari, un attestato già riconosciuto al tempo da Derek Olivier e dagli affezionati lettori del primo, indimenticabile Kerrang.

 

Eric Nicodemo

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