Recensione: White Trash Attitude

Di Fabio Vellata - 20 Ottobre 2013 - 18:00
White Trash Attitude
Band: Seventh Veil
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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61

Se è pur vero che da qualche parte si deve cominciare, è purtroppo manifesto come ai volonterosi Seventh Veil manchi ancora un buon pezzo di strada per imboccare la via del successo.

Autore di un primo demo agli albori del 2012, il gruppo veronese nato solo qualche mese prima, si presenta già ai blocchi di partenza nell’estate di quest’anno per l’uscita del debutto discografico ufficiale, licenziato per Street Symphonies, attivissima ed encomiabile label tricolore.

L’attitudine ruggente da solida realtà sleaze rock emerge con prepotenza dai solchi dell’esordio “White Trash Attitude”, consegnando tuttavia alla critica una serie di elementi poco convincenti che rendono l’operazione in certo modo acerba e – forse – indice di una preparazione in termini di puro “songwriting” non ancora adeguata nel reggere il confronto con la scena che conta.

La voce del singer Steven, dal timbro interessante ed “alcolico” (di certo adatto al genere) seppur ancora tutta da impostare e non propriamente incanalata sulle intonazioni corrette nel rendersi incisiva, appare come uno dei punti dell’album invero meno persuasivi ed azzeccati. Non è di stonature in senso stretto che stiamo di certo parlando, quanto piuttosto, di una costante sensazione di “canticchiato” che non lascia intravedere un’effettiva preparazione alla base.
L’idea insomma, è quella di linee vocali un pizzico improvvisate e poggiate solo sull’istinto: prive cioè, del piglio e del carisma utili nel contribuire a renderle davvero sicure e dominanti.

In parte scontato e troppo lineare appare poi proprio il tenore compositivo alla base delle dieci tracce offerte.
Non ci sono dubbi, l’hard rock non sa cosa farsene di innovazioni ed eccessi d’originalità, ma è altrettanto lampante come la riproposizione di stereotipi costanti ed iper-consolidati non possa condurre davvero molto lontano.
Schiettezza e semplicità sono, senza esitazioni, sempre le benvenute: il rifugiarsi in stilemi già ascoltati qualche migliaio di volte in altrettanti album, è tuttavia indice di una personalità ancora incerta e tutta da costruire. Un modo di proporsi che può aiutare nel prendere “confidenza” ma che, per ovvi motivi, dovrà affinarsi parecchio nel prosieguo di carriera, aggiungendo elementi propri ad un complesso altrimenti destinato a rivelarsi fragile e poco duraturo.

I pezzi presentati mostrano ad ogni modo un buon “tiro”, ottimo affiatamento tra le chitarre di Jack ed Holly (il vero elemento di forza del cd) ed una velocità d’esecuzione di buona efficacia: il fluire alla Black Label Society di episodi quali “Nasty Skin” e “Sister Cigarette” sono a dimostrare come la band abbia nel proprio patrimonio di valori delle doti strumentali alquanto rispettabili. Nessun leziosismo tecnico ma parecchia, ottima, sostanza.
Mancano però, i fondamentali caratteri di estro ed impeto personale, utili al fine d’uscire da territori un po’ banali e ad affermare in modo compiuto la propria voglia di successo.
Dieci brani che tutto sommato scorrono senza grossi intoppi, tra echi di Cinderella, Ac/Dc, Jetboy, Nasty Idols e Crüe, ma che, – forse con l’unica eccezione della finale “L.A. Dream” – allo stesso modo, non regalano particolari sussulti, attenendosi ad una serie di schemi divenuti negli anni veri e propri cliché. Prevedibili e – proprio per questo – destinati a perdersi nell’oceano di tante cose simili che il mercato rigurgita con insistenza quotidiana.

Ultimo aspetto da rivedere, forse il più preponderante in ottica di potenziale d’ascolto, è infine quello di una produzione dei suoni piuttosto deficitaria ed inefficace.
Piatta e non molto espressiva, non aiuta in alcun modo nel garantire il giusto impatto di cui le canzoni dei Seventh Veil necessiterebbero. In presenza di brani non proprio originali, ma corroborati da un sound comunque profondo, solido ed in grado di arricchire di potenza le ritmiche arrembanti allestite dal quintetto, avremmo parlato probabilmente di esiti complessivi differenti.
Tocca essere onesti sino in fondo: abbiamo ascoltato un buon numero di altre release targate Street Symphonies suonare molto meglio di questo primo album del five piece veneto.

Dopo averne sentito parlare tanto bene un po’ ovunque, ci aspettavamo davvero qualcosa in più dall’esordio del gruppo veronese. Eppure, nulla appare perduto.
Ripartendo dalla grinta e dalla schiettezza messe in mostra nell’affrontare un esordio periglioso e scomodo, proprio come quello riservato ad una band che si butta in un calderone ormai affollatissimo di proposte analoghe, ai Seventh Veil saranno concesse senza dubbio molte altre chance.
“White Trash Attitude” è, infatti, un disco alle nostre orecchie un po’ acerbo ed ancora in buona parte impersonale che, tuttavia, lascia intendere fondamentali di buonissimo valore sui quali poter lavorare con profitto.

Una base d’inizio dalla quale imparare e con la quale accumulare esperienza: non certo un punto d’arrivo o una ragione per sentirsi in qualche modo appagati.

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