Recensione: White Widdow
Molto romantica e suggestiva la visione musicale degli australiani White Widdow.
Attratti profondamente da tutto l’immaginario rock tipico degli indimenticabili eighties, i cinque canguri buttano, infatti, sul mercato un disco d’esordio che, per la gioia di chi con queste cose va letteralmente “a nozze”, sembra uscito proprio da quegli anni e riproposto a noi in un’ipotetica versione rimasterizzata o reincisa per l’occasione.
Canzoni veloci ed immediate, un taglio volutamente spensierato ed easy listening, armonie facilissime, dirette e quasi “ingenue”, sono fondamentalmente l’intelaiatura stilistica – e per certi versi concettuale – che contraddistingue il suono della band di Melbourne. AOR ultramelodico senza il minimo compromesso o concessione ai modernismi, costruito secondo una strenua fiducia in uno stile che desidera gratificare gli ascoltatori con toni leggeri e per lo più vivaci, dalle colorazioni calde come una giornata estiva ed un’allegria di fondo quasi impensabile per un’epoca come quella attuale.
Sono gli stessi White Widdow a segnalare le loro principali influenze: Whiste Sister, Survivor, Dokken, Touch, Aviator e soprattutto Treat, cui non possiamo non aggiungere un po’ di Europe e primi TNT, una spruzzata di Bon Jovi e Giuffria, qualche sventagliata di Van Halen, per un complesso che in qualcosa potrebbe ricordare nell’approccio i più recenti Brother Firetribe.
Davvero tantissimo in termini di qualità stando ai nomi citati, con il conseguente e pressoché immediato rischio di collassare rovinosamente sotto i colpi di paragoni giganteschi e piuttosto difficili da sostenere, in particolar modo, per un gruppo agli esordi.
Interessante invece, constatare come il quintetto australiano affronti la sfida nel migliore dei modi, ammantando i pezzi di una genuina passione per i propri modelli, non senza mettere in evidenza una preparazione di tutto rispetto in ogni fondamentale. Molto in “palla” il singer Jules Millis, perfettamente in grado di sostenere brani dai toni spesso alti ed urgenti, così come d’ottimo livello il guitar player di chiare origini italiane Enzo Almanzi, essenziale quando richiesto dalla trama della canzone, ma parimenti prodigo d’assolo gustosi ed interventi “vanhaleniani” di notevole caratura.
D’obbligo poi citare il tastierista Xavier Millis – fratello del frontman Jules – artefice di una prestazione decisamente fondamentale al fine di conferire quel flavour peculiare e tipico di certo hard rock di matrice ottantiana.
Gli esiti non sono miracolosi o da rivelazione mistica, ma quantomeno suscitano il rispettabile effetto di mostrarsi come realmente godibili, lasciandosi ascoltare in assoluta e piacevole scioltezza. Proponibili alla resa dei conti, come una sorta di Treat “bonjovizzati”, i White Widdow inanellano una tracklist che scivola senza intoppi ed accompagna con buon ritmo, piazzando, di quando in quando, un brano degno di nota più degli altri. È il caso, ad esempio, della scintillante “Broken Heart Won’t Last Forever”, piuttosto che del cadenzatissimo scandi rock (termine, in effetti, singolare alle latitudini australi) “Don’t Fail Me Now”, della più ispirata ed enfatica “Shadows Of Love” o della scattante e luminosa “One More Day”.
Quattro canzoni simbolo, quattro episodi infarciti di cori, ritornelli ed hooklines composti pensando ai tipici dettami del più classico e vitale rock da “arena” di almeno venticinque anni fa, che potrebbero figurare senza troppi ostacoli quali outtake rubate a “Dreamhunter” e “Organized Crime” dei Treat, tanto da lasciar a tratti quasi perplessi per una tale, ostentata, mancanza d’originalità. Ma in ugual misura, divertiti per lo stentoreo fluire di melodie squisitamente cristalline e di brani che non necessitano di molti ascolti per essere apprezzati nella loro interezza.
Dopo aver incontrato qualche mese fa i “Def Leppard clones” Grand Design, eccoci dunque al cospetto di un’altra band che preferisce lasciar da parte dichiaratamente estro ed audacia, per seguire con pedissequa fedeltà strade già percorse da altri.
Gli effetti nemmeno a dirlo, anche questa volta sono buonissimi ed il potenziale d’ascolto, parecchio elevato.
Poco importa che modelli ed influenze siano qualcosa in più di un semplice accenno: la musica offerta da questi White Widdow, in tutta sincerità, ci piace molto e, in fin dei conti, questo è più che sufficiente per valutare il loro debutto con tutta la benevolenza riservata ad un disco alquanto gradevole e ben suonato, che non tarderà a far presa su di una buona fetta di appassionati del genere.
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Tracklist:
01. Intro / Tokyo Rain
02. Broken Hearts Won’t Last Forever
03. We’ve Got The Wings
04. Cross To Bare
05. Don’t Fail Me Now
06. Spirit Of Fire
07. Shadows Of Love
08. One More Day
09. Change Of Passion
10. Fire & Ice
Line Up:
Jules Millis – Voce
Enzo Almanzi – Chitarra
Trent Wilson – Basso
Xavier Millis – Tastiere
Jim Naish – Batteria