Recensione: Whited Sepulchres [Reissue 2013]
A completare il poker di reissue 2013 marchiate Minotauro relative a Paul Chain giunge Whited Sepulchres, disco originariamente uscito nel 1991, che segue, per meri motivi anagrafici, i precedenti Detaching From Satan, In The Darkness e Life and Death, già recensiti su questi schermi. All’appello, per chiudere il cerchio, manca ancora Alkahest, del 1995, che verrà trattato più avanti.
Il fattor comune di queste release licenziate dalla leggendaria casa discografica di Pavia risiede nel fatto che il buon Marco Melzi, mastermind dell’etichetta, si è preso la briga di ristampare in versione remaster una cinquina di pezzi di storia della musica dura che da tempo non erano più disponibili, quantomeno senza andarsi a svenare per recuperare i vinili originali, incontrando la gioia dei tanti cultori rimasti finora a bocca asciutta.
Al di là dell’aspetto musicale, la forza delle reissue in oggetto è costituita dalla confezione simil-Lp che le accompagna. Nello specifico Whited Sepulchres si presenta con copertina esterna cartonata classica a tasca, ulteriore cartonato interno per l’alloggiamento del Cd fisico – già di suo inguainato in un cellophane apposito – più un cartoncino riportante il testo, sia in italiano che in francese, di Scena Familiare, poesia composta da Jacques Prévert nel 1946. Tornando al cartonato interno, va segnalato che su di un lato campeggia un quadro tanto inquietante quanto affascinante con sotto uno scritto che recita: “Viviamo nel mondo dei sepolcri imbiancati dove “apparire” è più importante di “essere” ma noi detestiamo i nostri carnefici !!??”. Dall’altro vi è la foto di Paul Chain con i dati tecnici legati a Whited Sepulchres. Immancabile, per finire, la costina per la rastrelliera, quella che più profuma di Lp vinilico.
A livello temporale, Whited Sepulchres uscì fra i full length Opera Decima – The World of the End del 1990 e Dies Irae, del 1994, senza contare singoli, split e un disco dal vivo, a tratteggiare un periodo artisticamente molto prolifico da parte di Paul Chain.
L’album dalla copertina bianca con la funerea riga nera a 45° sull’angolo sinistro in alto – nella foto per la recensione la riga è oscurata dalla costina – rappresenta uno fra i tanti momenti di stacco dalle sonorità più classiche associate naturalmente al polistrumentista pesarese, fenomeno invero abbastanza frequente all’interno della Sua carriera, a contraddistinguere la vivacità artistica del Nostro. E’ altresì vero che spesso tanta quantità non è riuscita sempre a far rima con tanta qualità, ma va dato atto all’ex Death SS di essersi sempre espresso con coraggio e di non essersi sottratto alle inevitabili critiche per questo suo singolare percorso.
Whited Sepulchres fa parte di quei lavori che a Loro tempo spiazzarono critica e fan. Messe da parte le metriche più vicine al Doom e facenti parte del bagaglio musicale più ricorrente di casa Chain, Paul confeziona cinque soli pezzi, dei quali tre intorno agli otto minuti di durata, uno “normale” di due – non a caso intitolato Two Minutes – e la title track di ben venti, a portarsi via tutto lo spazio a disposizione della side 1, traslando la recensione sotto forma di Lp, come nel 1991. Ad affiancare il Líder Máximo, Gilas alla voce in Are you Ready?, l’accoppiata Alexander Scardavian (chitarra)/Lu Spitfire (batteria) nella title track, poi i vecchi pard Thomas Hand Chaste e Claud Galley in The Fox in the Park, rispettivamente dietro le pelli e alle quattro corde. Il linguaggio utilizzato da Paul Chain è sempre il fonetico.
I tre quarti d’ora abbondanti di musica contenuti in Whited Sepulchres possono essere associati alla colonna sonora di un film allucinato per allucinati. Sia chiaro, nessun colpo di testa piuttosto che urla inumane improvvise: sin dal pezzo che dà il titolo all’album fino all’ultimo secondo della litania simil-ecclesiastica Are you Ready? è una sorta di tensione sotterranea inesplosa a menare le danze, di quella figlia delle infinite jam tipiche degli anni Settanta ove l’immediatezza era, di fatto, bandita. La voce – quando presente, in quanto il lavoro si sviluppa per lo più in ambito strumentale – di Paul Chain, inoltre, è sussurrata, lamentosa, a rendere ancora più sinistri alcuni passaggi.
Disco particolare, senza dubbio, ma anche, sempre senza dubbio, interlocutorio.
Stefano “Steven Rich” Ricetti