Recensione: Whitewater
Quinta release studio dei CG3, seconda sotto InsideOut e produzione di Tony Levin. Sfondate le porte del successo diventa tutto più semplice soprattutto quando tre professionisti padroni delle proprie corde hanno la possibilità di lavorare con la piena collaborazione dei King Crimson. Il nome di questo trio formidabile non deve trarre in inganno perchè le origini native di ogni componente non hanno proprio niente da spartire con la California ed in particolare: Bert Lams nasce in Belgio (Bruxelles), Hideyo Moriya in Giappone (Tokyo), Paul Richards nello Utah (Salt Lake City). L’incontro dei tre chitarristi risale ad un seminario organizzato in Inghilterra nel 1987 proprio dal grande Robert Fripp, da questo momento nascerà una vera e propria collaborazione lo storico gruppo progressivo ed in particolare con bassista e batterista: Tony Levin e Pat Mastelotto dei King Crimson girano il mondo in concerto accrescendo la celebrità dei tre virtuosi della chitarra che nel 1991 si incontrano a Los Angeles dove decidono in modo definitivo nome e direzione artistica del gruppo. La popolarità richiede sacrificio e sudore, le tre chitarre soddisfano le avide esigenze di un pubblico affamato mettendo in vetrina un capolavoro dietro l’altro, l’attività concertistica non si arresta ma anzi la fama del gruppo porta alla collaborazione con il sassofonista Bill Janssen e il percussionista Jarrod Kaplan. Esce un live ufficiale e numerosi bootleg praticamente introvabili, fino ad arrivare al 2004 con l’ennesima ottima prova di forza anche se probabilmente un pò sotto le righe se confrontata alle grandi aspettative della critica. Eliminata ogni traccia esplicitamente ritmica, troviamo le tre care chitarre insieme ad un occasionale chapman stick suonato indovinate da chi.
Quando ho sbattuto la testa contro la prima traccia ho pensato di impazzire, se tutte le tracce fossero state registrate con la stessa intensità di apertura adesso sarei seduto tranquillo nel freddo angolino di un manicomio. Purtroppo o per fortuna (decidete voi) le cose non vanno sempre come previsto, il disco infatti può essere tagliato spregiudicatamente in due metà perfettamente distinguibili: nella prima porzione (1-6) chi ascolta può essere deliziato da una sonorità profonda e toccante, impeccabile dal punto di vista tecnico ed incocepibile da una prospettiva puramente compositiva, nella seconda porzione (7-12) le sorti del disco subiscono un improvviso cambio di rotta verso la delusione conclusiva, un appannaggio blando delle intenzioni ed una confusione imbarazzante nella scelta di strade fragili ed inefficaci, certo la titletrack insieme al brano che segue sono due ottimi brani ma senza dubbio niente in confronto a The Marsh o alla rievocazione del Preludio in Sol Maggiore di Bach del pezzo in quinta posizione. Tuttavia sono convinto dell’estrema difficoltà di dare alla luce un pezzo anche bruttissimo quando la stesura deve tener conto dell’incrocio fra tre chitarre, quindi ad essere sincero mi sento lievemente in colpa per aver avuto anche in questo caso qualcosa da rimproverare ad un album come questo che pesa quasi una tonnellata se misurato in termini di tecnica e scrittura. Mamma mia.
Andrea’Onirica’Perdichizzi
TrackList:
01. The Marsh
02. Atlantis
03. Skyline
04. Mee-Woo
05. Prelude Circulation BWV
06. Cantharis
07. Cosmo Calypso
08. Whitewater
09. Led Foot
10. Relative Illusion
11. Red Iguana
12. Ghost Riders On The Storm