Recensione: Whitmare Rhymes
Assurdo ma vero: i Wolfmare, al tempo Wolfsangel, sono stati costretti a cambiare monicker perché tacciati, a causa del vecchio nome che è lo stesso di un simbolo politico, di essere un gruppo filo-nazista. Al giorno d’oggi succede anche questo ma non è territorio di nostra giurisdizione: stendiamo un velo pietoso e lasciamoci cullare dalle sinfonie ancestrali dell’album.
Risolti i comprensibili intoppi burocratici, i Wolfmare saltano di nuovo in sella con Whitemare Rhymes, il secondo disco della vivacissima formazione russa, otto gli elementi ufficiali che propongono un folk metal battagliero di facile assimilazione, aiutati da un paio di guest (o meglio amici) d’eccezione: Keith Fay e Karen Gilligan dei Cruachan.
Registrato a San Pietroburgo tra giugno 2006 e gennaio 2007, mixato e masterizzato da Sergei “Lazar” a Mosca lo scorso aprile/maggio duemilasette, l’album si presenta con un artwork curato di color verde, l’occhio di un cavallo bianco al centro della copertina, una foresta in trasparenza e attorno il classico ritaglio di una cornice a sfondo celtico. C’è tutto, dopo aver sfogliato il booklet possiamo passare alla fase cruciale: via alle danze.
Caricate sulle spalle le sonorità alle quali le nostre orecchie sono da tempo abituate (e qui c’è tutto, dai Cruachan ai Battlelore, dai Finntroll agli Ensiferum) i Wolfmare si sono ben avviati sul sentiero del folk evitando le imposizioni e le forzature del caso, e diluendo il tutto con l’heavy metal per una convivenza che pare tutto sommato spontanea.
Le melodie, almeno nelle prime fasi del disco, sono distese e appaganti, The Ballad Of Jolly Hangman, In Taberna e Widdershins Song hanno il grande pregio di introdurre l’ascoltatore all’interno della fiaba dei Wolfmare, che si realizza attraverso l’ausilio di strumentazione celtica (violini, cornamuse, mandolini, violoncelli, bodhran) e l’aggiunta di strumenti comuni. Mi permetto di dubitare sulla scelta di utilizzare un parco voci che vanno ai due poli passando per il centro: le linee romantiche di Keith e di Karen fanno da contrasto al vocione di Dmitri Petras (intervista), a sua volta letteralmente subissato dal growling di Iana Nikulina (e che spesso stona nel contesto musicale).
E’ il songwriting nella seconda metà dell’album che non riesce a convincere; quando si tralascia l’anfratto folcloristico per dedicarsi al metal nudo e crudo affiorano i veri problemi, concentrati all’interno della fase compositiva che risulta essere fredda e distaccata. Ne patisce un terzo del disco: Scattentanz, Mourning of The King e la conclusiva Web Of War.
Whitemare Rhymes è molto più immediato e orecchiabile dell’esordio, e il gruppo riesce ad incarnare perfettamente lo spirito folk. Purtroppo ci sono carenze alla base del sound che si spera vengano corrette o perlomeno smussate nei dischi a seguire: le basi per fare bene ci sono, ma il salto di qualità è rinviato a data da destinarsi. Qualcuno resterà infatuato, cercateli in giro per la rete e nei negozi specializzati perché possono fare al caso vostro.
Gaetano Loffredo
Tracklist:
1.The Ballad of Jolly Hangman
2.In Taberna
3.The Hall of Mirrors
4.Widdershins Song
5.Schattentanz
6.Mother Moose Jig
7.Shine
8.Mourning of the King
9.Web of War