Recensione: Whoosh!
La sorte mi ha messo tra le mani il compito di recensire Whoosh!, il nuovo disco dei Deep Purple, proprio nei giorni in cui è giunta la notizia della morte di Martin Birch, che fu produttore di tanti capolavori della band inglese (e di molte altre). Basti per tutti evocare In Rock (1970), Machine Head (1972) e il mai troppo lodato live Made in Japan (1972), titoli che emozionano qualsiasi fan del rock e il cui suono ne è parte essenziale, tanto quanto lo è la musica.
Con quei titoli siamo tutti cresciuti, noi e i nostri idoli metallici stessi, fino a sentirli intimi amici che ci fanno compagni nell’altalena della vita; tra loro c’era anche il nome di Martin Birch, che così spesso incrociavamo nello scorrere le note di copertina degli LP appena scartati, o tanto consumati; tra loro ci sono i Deep Purple, che a più di mezzo secolo dal debutto (Shades of Deep Purple è del 1968) si divertono ancora a jammare e tirare fuori pezzi che semplicemente se ne fregano delle etichette e delle mode, restando sempre così tanto Deep Purple.
Whoosh! è un suono onomatopeico che vuole richiamare lo scorrere veloce di qualcosa, o di qualcuno. Ecco dunque la copertina, che lascia interdetti sull’intenderla come lo sfocarsi di un essere umano, o il suo sabbioso passare frettoloso, un po’ come la ragazza che corre sul balcone di Giacomo Balla.
Certo i Deep Purple hanno corso tanto su quel balcone; e tanto hanno lasciato alle proprie spalle, in costante evoluzione, fino ad arrivare all’attuale Mark VIII, ormai giunta al suo diciottesimo anno (!) di attività. E questo Whoosh! non fa che confermare quanto di buono i recenti Now What?! (2013) e soprattutto Infinite (2017) avevano regalato agli appassionati, spalmati lungo almeno tre generazioni.
Per quanti di voi avessero smesso di seguire la band dopo Perfect Strangers (1984), oppure conoscessero il solo, imprescindibile, Machine Head (un fondamentale nella formazione del rocker), dirò che Whoosh! è il lavoro di una rock band straordinaria per scrittura, arrangiamenti, groove e suono; una band a cui non è lecito chiedere una nuova Highway Star, e non solo perché della storica Mark II sono rimasti in formazione i soli Gillan, Glover e Paice, ma anche e soprattutto perché la macchina Deep Purple non si è mai seduta sugli allori del proprio passato, sempre producendo musica sincera e, nel suo, innovativa.
Così è anche in Whoosh!, la cui musica invade sincera il rocker stanco di suoni sempre uguali, batterie campionate e assoli di chitarra che sembrano riempitivi. Whoosh! è, innanzitutto, un disco rock sincero; quasi lo direi analogico, se con ciò non rischiassi di scadere in un nostalgico revival, che è proprio quello che i Deep Purple vogliono evitare. Per tutto questo, non possiamo omettere di ringraziare anche la sapienza di Bob Ezrin alla produzione (uno che, per dire, ha cambiato la storia dei Kiss mettendo mano a Destroyer), in grado di cogliere al meglio il momentum, per poi consegnarlo all’infinito.
Ecco, quindi, che Throw My Bones fa la gioia dell’ascoltatore, con un Ian Gillan grande intrattenitore e quasi crooner nella strofa, mentre la musica è un rock dalle tastiere pompose arricchito da un bel bridge, mentre Steve Morse ci consegna un assolo splendido; e non lesinerà di ripetersi.
Seguono Drop the Weapon e We’re All the Same in the Dark, due pezzi hard rock di gran classe, dove ritroverete i classici dialoghi chitarra-tastiere che da sempre caratterizzano i Deep Purple, con Ian Paice e Roger Glover che donano un groove merce rara ai giorni nostri.
Arriva Nothing at All e si cambia registro. Trattasi di un gioiellino velatamente melanconico che gioca intorno a un gioco di chitarra cui fa da contraltare un Don Airey caldo e ispirato, fino allo scaturire del ritornello, che trova la propria forza nella semplicità e, al contempo, nella potenza. Ancora una volta Steve Morse e Don Airey ci regalano un paio di assolo di grande livello e pathos. Insomma, un piacere per le orecchie di chiunque ami il rock.
Segue No Need to Shout, che si apre con un suono di tastiere che non può non rimandare a Perfect Strangers. Il pezzo, poi, prende tutt’altra piega, pur posizionandosi intorno allo stile che fu di quell’attesissimo disco.
Ancora le tastiere, e questa volta declinate in organo, aprono Step By Step, pezzo quasi teatrale, di atmosfera cangiante e progressivamente avvolgente. Di difficilissima resa. Step by Step dimostra tutta l’esperienza dei Deep Purple del 2020, capaci di svisare intorno a un progressive jammato ma mai caotico. Una perla.
Ed è rock n’ roll quando What the What invade le casse dello stereo e i bassi si fanno sentire sulle pance imbirrite del rocker d’annata. Niente di trascendentale, per carità, ma un bel divertimento, per chi ascolta e per chi suona.
Sempre rock, ma decisamente di suono più hard, è The Long Way Round, brano notevole che assomma tutto ciò che avete ascoltato da parte dei Deep Purple da Perfect Strangers (ancora) ad oggi.
Tornano i toni drammatici con The Power of the Moon, contrappuntata da un giro di Roger Glover essenziale e caldissimo. Solo apparentemente scontata, The Power of the Moon getta sulla variegata tela della band inglese gli ennesimi, nuovi colori, questa volta fatti di una ritmica semplice e controllata a supporto di una melodia prima opprimente e quindi ariosa. Abituati come siamo a dischi uguali a se stessi dal primo all’ultimo minuto, non possiamo che godere di tanta varietà, che per una volta fa davvero rima con qualità.
Remission Possible inizia con l’attitudine di un pezzo strumentale, per poi trasformarsi in una mutevole creatura fatta d’intermezzi sussurrati vagamente orientaleggianti e classici assolo hard rock. I Dream Theater farebbero bene ad andare ad ascoltarsela.
E poi qualcosa di familiare nelle orecchie. And the Address è addirittura il primo, strumentale, brano di Shades of Deep Purple. È passato più di mezzo secolo e And the Address, riproposta molto fedelmente, suona ancora freschissima. Mi impegno ad ascoltarla come se fosse la prima volta e, per quel che posso, ne comprendo la portata contingente e, al contempo, eterna. Chiaramente innestata nella fine degli anni sessanta, riesce tuttavia a trascendere i decenni, portata per mano da una band che nel frattempo le è cambiata intorno (il solo Ian Paice era della partita nel 1968), alla fine rimanendo fedele alla propria identità.
Infine, la bonus track Dancing in My Sleep è un divertimento simpatico della band, che però non aggiunge molto a quanto offertoci da Whoosh!
Ecco, Whoosh! è un regalo offertoci dai Deep Purple, un caleidoscopio di atmosfere, suoni e generi; il tutto perfettamente amalgamato da un groove d’esperienza unico (e unica), che risulta in un disco preoccupantemente bello. Sì, il recensore inciampa di rado in dischi che trasudano di sala prove, ma abbonda di prodotti perfetti suonati da uomini distanti e macchine programmate. E si preoccupa ad esaltarsi all’ascoltare la pelle di rullante davvero pestata (o carezzata) da un ultrasettantenne che ha una gamma di ritmi e tocchi che ancora supera quella di tanti più giovani di lui. Insomma, qui c’è rock, vero, sudato, sentito, divertito. Lo si tenga sempre presente, alla consolle di produzione di qualsiasi album che di quel genere sia una qualsivoglia variazione.
Ma c’è altro di cui forse preoccuparsi; perché se la Natura è una foresta di simboli, è fin troppo semplice vedere uno schema a ring chiudersi tra il 1968 di Shades of Deep Purple (aperto da And the Address) e il 2020 di Whoosh! (chiuso da And the Address). Lasciamo che questa preoccupazione scorra sotto pelle ed evitiamo di guardarla negli occhi, ben sapendo che sempre avremo bisogno dei Deep Purple.