Recensione: Wild Orchids
Non è mai stato un personaggio da copertina. Non amava i riflettori, e quando i vari Peter Gabriel e Phil Collins si offrivano in pasto alla stampa, lui era solito ritirarsi in un angolo a strimpellare la sua chitarra – e quanti avrebbero voluto strimpellare come lui! È forse per questo che quando si parla di Genesis raramente il nome di Steve Hackett è il primo a essere pronunciato. Eppure, pochi chitarristi al mondo, con il loro tocco e le loro innovazioni, hanno avuto un impatto lontanamente paragonabile a quello del silenzioso inglese sulla scena rock.
La sua storia non è di quelle ecletanti, infarcite di rapporti burrascosi con i compagni o di scandalosi segreti privati. Il grande pubblico perse le sue tracce nel 1997, con l’era Collins ancora ai suoi albori, non appena Steve intese che quel che i Genesis avevano da dire avevano finito di dirlo con “A Trick of the Tail”. Da lì inizia la sua straordinaria carriera solista, spesso dimenticata, ma altresì capace di produrre veri e propri capolavori, tra i quali mi piace ricordare in particolare lo straordinario “Spectral Mornings” (1979) e “A Midsummer Night’s Dream” (1996), sublime concerto shakespeariano per chitarra classica e orchestra.
In Steve Hackett la voglia di sperimentare, di trovare nuove strade, non si è mai affievolita. Chi avesse qualche dubbio in proposito, può fugarlo prestando orecchio alle note di “Wild Orchids”. La sfida per costoro è trovare oggi qualche disco che suoni in modo simile. Le molte anime del chitarrista inglese – quella blues, quella classica, e naturalmente quella rock – si coniugano con spontanea naturalezza in un suono etereo, magico, senza eguali. È un viaggio attraverso culture lontane che impattano le une contro le altre scoprendo un’insospettabile affinità reciproca: non tanto progressive, quanto “collision”, nelle parole di Steve.
Ecco allora prendere vita il rock incalzante di “Howl”, lacerato da venti sinfonici intrisi di melanconia, oppure la struggente “To a Close”, ferita aperta e sanguinante tormentata dal tocco di un cantato di piombo, o ancora l’orchestrale “Set Your Compass”, dominata dall’avvolgente delicatezza sinfonica di quella Underground Orchestra che da tempo affianca Hackett con la propria poesia. Innumerevoli sono gli stili che si incontrano, si amalgamano e si separano nuovamente, per ridisporsi in nuove combinazioni. Per questo, a seconda delle diverse sensibilità, nella mente e nel cuore di ognuno si incastoneranno brani diversi, che nel tempo potranno anche mutare, rivelando a poco a poco nuove sfumature di colore.
Difficilmente troverete difetti in un album come questo. Tutto ciò di cui lo potrete accusare, è di non venire abbastanza incontro ai vostri gusti, e di non alzare mai la voce con qualche pezzo eclatante, di quelli che da soli bastano a conquistarsi un posto nella storia. Ma sarebbe ridicolo e incredibilmente limitativo pensare che il contributo che Steve ha dato e continua a dare alla storia possa essere ridotto in un pugno di canzoni. Piuttosto, è la determinazione ad andare avanti, a crescere, a cercare nuove vie senza mai accontentarsi o perseguire il successo facile, dopo qualcosa come ventisette album da studio, senza contare i live, i DVD, le raccolte: questo è ciò che veramente straordinario in Steve Hackett.
Tracklist:
1. A Dark Night In Toytown (3:42)
2. Waters Of The Wild (5.35)
3. Set Your Compass (3:38)
4. Down Street (7:34)
5. A Girl Called Linda (4:44)
6. To A Close (4:49)
7. Ego & Id (4:08)
8. Man In The Long Black Coat (Bob Dylan cover) (5:07)
9. Wolfwork (4:49)
10. Why (0:47)
11. She Moves In Memories (5:00)
12. The Fundamentals Of Brainwashing (3:01)
13. Howl (4:31)
Nota: dell’album è disponibile anche una versione limitata, contente le seguenti bonus track:
– Transylvanian Express (3:44)
– Blue Child (4:25)
– Cedars Of Lebanon (4:02)
– Until The Last Butterfly (2:29)